di Stefania Rotondo

Qualche giorno fa sulle note di ‘Eye of the tiger’ dei Survivor, Enrico Letta è salito e sceso dal palco della festa dell’Unità di San Miniato. “Durante queste settimane prima del voto dovete avere gli occhi della tigre”, ha detto ai dem, indossando accappatoio e guantoni da pugile, il Rocky della campagna elettorale ferragostana.

I seguaci della cristalloterapia conoscono bene i benefici dell’occhio della tigre: infonde coraggio e stabilità, aiuta a superare i momenti di difficoltà e aumenta la fiducia in se stessi. E tanta stabilità, fiducia (in se stessi o nel partito?) ma soprattutto coraggio dovranno avere gli elettori del Pd il 25 settembre nel segreto dell’urna. Perché Letta più che Rocky appare in quest’agone Totò, quando all’urlo di “autisti, fuochisti, macchinisti, facchini, gente di fatica” cercava il suo posto nel wagon lit.

Nel treno accelerato della politica post-Draghi, sovraffollato di ammucchiate e ammoine, e che sta portando il Paese dritto dritto verso un autunno caldo/freddo, Letta cerca il posto all’ideale ormai perduto del suo partito, e all’urlo di ‘ex forsisti, Calenda, Renzi… chiunque ci sta, noi lo prendiamo!’ (un compromesso al limite dell’indigeribilità pure per un democristiano del secolo scorso), Totò-Rochy tenta di far ingoiare rospi niente male ai suoi elettori. Eh sì, perché Totò-Rocky invece di andare a sinistra, non solo si sposta al centro, ma tende la mano a chi ha passato un’intera vita con B.

Pasolini cinquant’anni fa con folle lungimiranza intravide l’epilogo amaro del credo di sinistra nel fatto che questa smise di porsi una semplice domanda: cosa significa essere di sinistra? Il poeta friulano dice: “Quei figli di contadini, [….] si erano messi un giorno un fazzoletto rosso al collo […] fu così che io seppi ch’erano braccianti e che dunque c’erano i padroni. Fui dalla parte dei braccianti, e lessi Marx”. Ecco “il perché” un individuo sceglie di essere di sinistra: per essere dalla parte degli ultimi, degli emarginati, dei poveri.

Pasolini intuì il libertinismo radical-chic che covava già all’epoca nelle pieghe più nascoste della società italiana, che in pochi anni era passata dalla povertà contadina del periodo pre e post bellico, alla ricchezza di una classe imborghesita che dimenticò così in fretta le sue origini semplici e solidali, seppur grezze. Egli aveva urlato, senza essere udito, contro la scientificità creata a tavolino che rese tutto così tristemente uguale, omologato. Gli ideali cedettero col tempo agli interessi economici e consumistici, e la speranza che di solito è l’ultima a morire, divenne flebile come un lumicino, e i sogni si persero sul campo di battaglia.

La battaglia di cui scriveva Pasolini era di matrice culturale, perché egli intravedeva nell’assenza di una sinistra volta alla giustizia sociale e alla protezione dei deboli i guasti dell’Italia.

Il periodo storico contestualizzato da Pasolini è quello della Prima Repubblica, denso di ombre. Ma almeno c’era il Pci, checché se ne dica, che fu la più grande scuola culturale di massa di questo Paese. Nel bene e nel male. Eppure, il poeta già intravedeva la fine di un’ideologia e di una società. L’isola del Pci non esiste più, non esistono più nemmeno i suoi eredi, i suoi intellettuali, i suoi ideali, le sue lotte, le sue conquiste e in questi ultimi decenni sono stati sacrificati sugli altari della finanza, delle banche e della legittimazione ‘governista’, i sogni e le speranze degli ultimi.

Fa bene dunque Totò-Rocky a salire su quel treno ad alta velocità sulle note di Eye of the tiger, perché per chiedere al suo elettorato di otturarsi con fede e non solo con fiducia il naso e ingoiare rospi difficilmente digeribili, non ci vorrà solo una buona dose di coraggio e stabilità, ma anche una quintalata di bicarbonato.

Fuori i secondi… Gong… Vai Occhi di Tigre!

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