Cultura

Da Giotto a da Vinci: i 41 anni di restauri del soprintendente Marco Ciatti. “Se fossi ministro della Cultura? Subito concorsi e dentro i giovani”

L'INTERVISTA - Il Soprintendente dell’Opificio delle pietre dure di Firenze il prossimo 31 luglio va in pensione dopo oltre 41 anni di servizio nell’amministrazione dello Stato e racconta la sua vita nel mondo dell'arte

di Marco Ferri

Competente, paziente, preciso. Tre aggettivi descrivono alla perfezione Marco Ciatti, Soprintendente dell’Opificio delle pietre dure di Firenze che il prossimo 31 luglio va in pensione dopo oltre 41 anni di servizio nell’amministrazione dello Stato. Gli ultimi 10 li ha trascorsi nell’ufficio di via degli Alfani, sede della Soprintendenza dell’Opificio, anche se il suo regno resta il grande e moderno laboratorio restauri della Fortezza da basso. Eppure non aveva cominciato lì: “Ho iniziato ufficialmente il 3 gennaio 1981 ma il mio primo incarico fu nella soprintendenza di Siena fino al maggio 1984 quando ottenni il trasferimento all’Opificio di Firenze grazie ai buoni uffici di Antonio Paolucci che già mi conosceva. In attesa del ruolo di soprintendente, Paolucci in quel periodo dirigeva il laboratorio della Fortezza, mi chiese se fossi interessato ad andare a lavorare con lui; io gli dissi di sì e così cominciai. Ma i primi anni a Siena, grazie anche a persone di valore come Alberto Cornice e Bruno Santi, furono essenziali per la mia formazione di funzionario”.

E quando Paolucci divenne soprintendente?
“Arrivò Giorgio Bonsanti che nel 1988 mi nominò direttore del laboratorio dipinti. Da allora si sono susseguiti diversi soprintendenti con cui ho sempre avuto un ottimo rapporto – dalla Forlani e Paolucci a Bonsanti e Cristina Acidini, poi Bruno Santi e Isabella Lapi Ballerini – tutte persone di qualità da cui ho imparato molto. Con essi c’è stata una continuità d’azione. Tutti hanno lavorato per portare avanti i problemi secondo la stessa linea. Per questo in tutti questi anni l’Opificio ha avuto una crescita di competenze e capacità. In quegli anni ho lavorato in un laboratorio restauro dei dipinti tra i più grandi e meglio attrezzati al mondo. Io ho sempre cercato di investire in strutture e attrezzature innovative, così come nelle competenze delle persone, con cui ho sempre mantenuto un elevato spirito di condivisione. Ho raggiunto grandi obiettivi perché ho sempre potuto contare su una squadra validissima, rispettando sempre la regola della trasmissione delle competenze, che nel nostro lavoro è fondamentale”.

Si tratta di dettagli di cui, immagino, è orgoglioso…giusto?
“Certo. E non solo le sole. Noi viviamo delle nostre capacità e competenze. Non siamo un museo che vive con le opere che deve gestire, né abbiamo gli indirizzi di tutela delle soprintendenze. Noi lavoriamo se veniamo coinvolti e ci chiedono di intervenire. Per questo la nostra parola d’ordine è: collaborazione. E ovviamente ci chiedono di entrare in azione se siamo competenti”.

L’Opificio si appoggia spesso ad altri istituti di prestigio?
“Sì. Abbiamo tutta una serie di accordi sia con i musei, tra i quali gli Uffizi è quello più importante, con le tre fabbricerie di Firenze (Santa Croce, Santa Maria del Fiore e Medicea Laurenziana), con Fondazioni culturali etc.. E lo stesso vale per il piano scientifico: abbiamo rapporti diretti con varie istituzioni per le indagini scientifiche applicate ai beni culturali con cui abbiamo costituito una rete sia nazionale, come l’Istituto Nazionale di ottica del CNR, l’Istituto nazionale di fisica nucleare, l’Ifac (utilizzo dei laser), l’Università di Firenze (dipartimento per la nano tecnologie), sia europea”.

Un esempio clamoroso di collaborazione scientifica?
“Quando abbiamo restaurato l’Adorazione dei Magi di Leonardo da Vinci, grazie a una tecnica innovativa denominata OCP, che misura in maniera non invasiva lo spessore delle vernici superficiali, è venuto appositamente a Firenze un professore dalla Polonia, nell’ambito di un progetto europeo. Le reti oggi sono la soluzione a tanti problemi”.

Tanti studi, tante analisi e scoperte, ma i risultati?
“Noi abbiamo sempre cercato di dare importanza alla presentazione dei risultati delle nostre ricerche; l’abbiamo fatto sia per un dovere etico, perché noi viviamo di soldi pubblici, sia per arricchire le conoscenze della comunità scientifica. E così, quasi senza accorgermene siamo arrivati a ben cinque collane editoriali, con oltre cento volumi pubblicati”.

Parliamo d’altro. Con la Riforma Franceschini è cambiato il rapporto tra l’Opificio e i grandi musei, in particolare gli Uffizi, che godono di una corsia preferenziale verso il suo istituto. Si dice però che ciò abbia provocato l’emarginazione di tanti restauratori, alcuni dei quali avevano avuto per le mani anche capolavori assoluti dell’arte occidentale. Non appartenendo all’Opificio, nonostante i loro prestigiosi curricula questi validi professionisti non riescono più a ottenere incarichi dalla Galleria fiorentina. Che ne pensa?
“È un equivoco da chiarire. L’Opificio non si occupa di tutti i restauri degli Uffizi, perché non saremmo mai in grado di soddisfare le loro richieste. Nella maggior parte dei casi agiamo come consulenti, stiliamo le relazioni che servono alla Galleria per predisporre le gare, facciamo le valutazioni dei progetti, ma il numero dei restauri è rimasto quello di prima. Si tratta più di un fatto psicologico e magari anche un po’ sentimentale. Magari qualcuno che aveva conquistato una posizione di restauratore di fiducia degli Uffizi, con l’organizzazione voluta dalla nuova direzione della Galleria ora si sente messo nel mucchio come tutti. Ma l’Opificio, anche volendo non potrebbe smaltire tutto quel lavoro. E poi non ci interessa: siamo un istituto di ricerca, non una ditta di restauri. A noi interessano i casi per poter sperimentare, capire, studiare. E spesso si tratta dei casi più rognosi di restauro, per i quali ci sono dei costi talmente alti che un’azienda normale non li potrebbe sostenere”.

Ciatti, quali sono i restauri che l’hanno emozionata di più?
“La Croce di Giotto di Santa Maria Novella, perché visto da vicino si rivelò un capolavoro infinito, che Giotto realizzò a soli 20 anni e che ci permise di fare tante scoperte. Collegata a questo restauro mi piace ricordare la mia battaglia per ricollocare la Croce nel posto dove verosimilmente stava, cioè in mezzo alla navata. La ricollocazione fu decisa al termine di un percorso di studi che ci permise di sapere molto di più su questo oggetto straordinario nei confronti del quale compimmo i tre gradi del nostro lavoro, cioè intervento, prevenzione e manutenzione periodica”.

Un altro restauro che le rimasto nel cuore?
Il San Giovanni decollato di Caravaggio che sta a Malta. Anche in quel caso fu un’emozione enorme e anche un’avventura, a cominciare dai rapporti con un ente straniero, per farlo viaggiare senza smontarlo dal telaio, il che complicò la vita a tutti e ci costrinse a fare una cassa gigantesca che viaggiò grazie all’aiuto della Marina Militare che lo alloggiò nell’hangar dove normalmente sta l’elicottero. E poi mi hanno molto emozionato alcuni lavori che, se pur non li abbia seguiti io personalmente, sono stati realizzati dall’Opificio e hanno portato a un incredibile avanzamento delle tecniche di intervento in quel determinato caso. Per esempio sto pensando al restauro della Porta del Paradiso di Ghiberti che ha cambiato radicalmente le tecniche di intervento su un grande bronzo dorato. E poi a caduta queste conoscenze acquisite sono state utilizzate per tutte le altre opere dello stesso settore

E un restauro che non l’ha soddisfatta?
Direi che non ce ne sono. Ho avuto la fortuna di convincere sempre i miei interlocutori di fare come ritenevo opportuno. Bisogna sempre parlare con tutti e spiegare le nostre intenzioni. Ma mi lasci ricordare anche il lavoro che abbiamo fatto e stiamo facendo per le opere vittime dei terremoti, prima dell’Aquila e poi dell’Emilia Romagna, anche perché sono responsabile del deposito di Santo Chiodo, a Spoleto. Si tratta di un intervento congiunto con i colleghi dell’ICR di Roma, un momento di unione molto bello che ha portato anche a preparare un bando per reclutare ben 23 persone che lavorino per due anni a portare avanti il lavoro di recupero e messa in sicurezza di questi beni perché non ne parla più nessuno, nonostante siano una quantità impressionante.

E un restauro che le sarebbe piaciuto fare, ma non ne ha avuto l’opportunità?
Ha avuto molti ritardi non per la nostra volontà, ma è appena iniziata la fase diagnostica del restauro della Cappella Bardi di Giotto, nella Basilica di Santa Croce a Firenze. Mi sarebbe piaciuto vederlo, anche perché per Giotto ho un’ammirazione straordinaria. Spero che i colleghi mi inviteranno almeno sul ponteggio…

A proposito: chi la sostituirà alla guida dell’Opificio?
Non si sa. So solo che all’interpello del Ministero hanno risposto alcuni colleghi, poi a Roma decideranno. Io per altro sono disponibile al necessario passaggio di consegne.

Ma vogliamo comunque mandare un messaggio al suo successore?
Grazie al lavoro di tanti anni di molte persone l’Opificio è diventato un’eccellenza a livello internazionale. Ma come sempre accade, non dobbiamo mai dare niente per scontato. Si fa presto a cadere giù. Invece bisogna sempre lavorare per andare avanti, perché fermi non si può stare. O si va avanti, o si torna indietro.

Ultima domanda con annessa provocazione: domani lei si sveglia ministro della Cultura e lo sarà per tutto il giorno. Quale urgente provvedimento adotterebbe?
Farei subito una marea di concorsi per assumere tanti, tanti giovani perché ne abbiamo un bisogno disperato. Ci sono tanti laureati, mentre i nostri uffici sono sguarniti e le cose da fare sono sempre di più. Il fattore umano è fondamentale. Gli istituti come l’Opificio sono fatti dalla qualità delle persone. Se li avessi li coinvolgerei e li valorizzerei prima possibile.

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