La triste cadenza dei femminicidi, lo squadernare di cifre, di comparazioni e di statistiche rischiano di renderci in qualche modo insensibili e assuefatti a un fenomeno che espresso in numeri trasforma l’ennesima tragedia in un punto su di un arido diagramma. Sulle ordinate (y) il numero di donne violentate o uccise e sulle ascisse il Tempo (x), è evidente a questo punto il rischio dell’indifferenza e soprattutto un senso di impotenza di fronte a un fenomeno in crescita, che va di pari passo con la vittimizzazione secondaria delle donne nelle aule di giustizia, anche perché da più parti si sono evidenziati casi di scarsa specializzazione nell’apparato di giustizia su un tema così scottante.

Di fronte alla non sufficiente specializzazione dei giudici, ma anche dell’avvocatura, delle forze di polizia giudiziaria, dei servizi sociali e di tutti gli attori che partecipano alla rete di protezione su questi specifici temi “non ci si può improvvisare, bisogna essere competenti e formati” sostiene Fabio Roia, magistrato dal 1986, presidente facente funzioni del tribunale di Milano, docente universitario, autore di Crimini contro le donne, politiche, leggi, buone pratiche, un libro in grado di ridare fiducia anche in un quadro a tinte molto fosche, che ho avuto la fortuna di incontrare, un punto di riferimento nella lotta alla violenza subita dalle donne.

A questo proposito qualche cosa si è mosso e i più recenti dati del Consiglio Superiore della Magistratura ci dicono che nel 90% delle procure c’è almeno un Pm specializzato mentre per i giudicanti il dato si ferma al 24%, che non significa solo la conoscenza delle fonti del diritto nazionale, ma anche di quelle sovranazionali come la convenzione di Istanbul (che continua ad essere trascurata come ha denunciato anche in un recente rapporto l’Agenzia Dire), la direttiva sulle vittime del 2012, ma anche la conoscenza di scienze complementari. Per valutare la coerenza del racconto il giudice deve capire che la donna che subisce violenza è ferita nei sentimenti, con sensi di colpa e di vergogna e spesso sottomessa a pressioni esterne, e se non si conoscono a fondo queste caratteristiche sì rischia di sbagliare.

Nel recente convegno #hodettono, che si è svolto a Udine, organizzato da Maddalena Bosio in collaborazione con il Sole24ore nella figura di Simona Rossitto, è emerso però che, se si sta ponendo rimedio all’eventuale impreparazione/specializzazione di alcuni giudici, resta il problema della scarsa competenza dei consulenti tecnici d’ufficio (spesso psicologi) figure che intervengono nel campo del diritto civile, problema al quale la riforma nota come Cartabia (entrata in vigore il 22 giugno di quest’anno) sta ponendo mano, in quanto dovranno aver maturato almeno tre anni nello studio della violenza domestica.

A questo proposito Fabio Roia è ottimista, pensa che in prospettiva la scarsa preparazione delle CTU dovrebbe essere superata. Ad ogni buon conto il consulente tecnico è un ausiliario ed è il giudice, a cui spetta la decisione finale, che deve avere le competenze necessarie, e può richiedere degli approfondimenti ad altri specialisti o consentire un ruolo attivo del Pubblico Ministero.

Un nodo che sembrava risolto, anche in seguito alle recenti esternazioni della consulta e del suo presidente Amato, riguarda il fatto che molti degli attori in campo siano ancora imbevuti di una cultura maschilista del sospetto nei confronti della donna offesa, e si tenda ancora a far prevalere il principio di genitorialità del padre, senza ascoltare i bambini, anche in casi di denuncia o di condanna del padre. Sebbene la Consulta si sia espressa chiaramente per assoluta non scientificità della sindrome da alienazione parentale (Pas) alcuni consulenti, nel caso di separazione con figli, tendono a colpevolizzare, ingiustamente la mamma al posto di chiedersi come mai un bambino non voglia stare con un padre violento, magari avendo assistito alla violenza. “Tendono a non credere alla donna, e questo può avvenire anche se i consulenti sono donne, non conta il genere, la competenza è il vero discrimine, e queste distorsioni possono essere raddrizzate solo con il rafforzamento delle competenze, la violenza assistita è comunque un reato reintrodotto anche dal Codice Rosso”, sottolinea il presidente Roia.

Vivere con lentezza lavora da anni in varie carceri italiane, in particolare a Pavia e Piacenza (qui con i sex offender), da questo incontro abbiamo capito che dovremo fare molto di più, creando contaminazione, parlandone di più, magari organizzando un convegno in quel di Piacenza, dove l’esperienza di un carcere che sta raggiungendo livelli d’eccellenza in questo settore anche grazie ai rapporti consolidati con il Cipm (Centro Italiano per la Promozione della Mediazione), potrebbe essere di grande aiuto. Ma potremmo partire anche nel quotidiano, indipendentemente dal nostro ruolo, iniziando a gelare quelli che fanno quelle stupide battute per strada o al bar, per cominciare a contrastare a ogni occasione questa strisciante, odiosa, subdola e persistente violenza nei confronti delle donne, ancora una volta seguendo i consigli di Fabio Roia.

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