“La gestione dell’immigrazione deve essere umana, equa ed efficace. Noi cerchiamo di salvare vite umane. Ma occorre anche capire che un Paese che accoglie non ce la fa più. Forse noi siamo il Paese meno discriminante e aperto, ma anche noi abbiamo limiti e ora ci siamo arrivati“. E’ la risposta di Mario Draghi a una domanda della stampa al termine del vertice intergovernativo tra Italia e Turchia. Sono parole che hanno un peso particolare. Intanto perché sono state pronunciate in casa di Recep Tayyip Erdogan, presidente di un paese che l’Unione europea paga per contenere i flussi migratori verso l’Europa, forse il caso più eclatante nella strategia europea di esternalizzazione delle frontiere. E poi perché la posizione nei confronti di un’Unione che volta le spalle all’Italia è coerente con la tradizione dei governi italiani, ma decisamente meno con la realtà dei numeri, che non vedono certo il nostro Paese in testa alle classifiche europee delle richieste di asilo. Per non parlare di quanto poco l’intera Europa faccia per dare una mano a chi ha bisogno d’aiuto oltre ogni ragionevole dubbio. A mostrare i suoi limiti, piuttosto, è da sempre il nostro modo di gestire il problema: emergenziale anche nell’accogliere chi ha diritto, ucraini compresi.

Più di sei miliardi di euro per tenersi milioni di siriani, popolazione in fuga da una guerra iniziata nel 2011 che tra il 2015 e il 2017 ha gonfiato i flussi migratori verso l’Italia e l’Europa. L’accordo stretto con la Turchia è uno dei tanti che l’Unione europea ha siglato con Pesi terzi per esternalizzare le frontiere ed evitare di respingere con le sue mani i migranti che puntano alle sue frontiere dove, una volta arrivati, le leggi comunitarie garantirebbero il diritto di chiedere asilo. E’ quanto avviene lungo la rotta balcanica, tra finanziamenti anche italiani a paesi extra Ue e accordi informali tra polizie di confine. E in Libia, dove l’Italia investe centinaia di milioni perché nessuno possa più condannarla per aver operato respingimenti di massa. Lo stesso Draghi parla ormai di “salvataggio di vite umane” operato dalla Libia, nonostante i tanti rapporti sui “centri di detenzionein cui finiscono quasi tutti i “salvati”. Parlare di migranti accanto a Erdogan e mostrare sintonia sul tema è dunque più coerente da parte nostra che definirlo “dittatore”, come pure Draghi aveva fatto appena un anno fa. L’Unione europea è una parte di mondo che per i migranti resta difficile da raggiungere e dove le richieste d’asilo rappresentano un problema più per la litigiosità tra i paesi di primo ingresso e quelli di secondaria destinazione che per la realtà dei numeri.

Partiamo dal contesto internazionale e dal ruolo dell’Europa sul fronte delle migrazioni forzate. Nel mondo sono 100 milioni le persone che a maggio 2022 risultano forzatamente sfollate. Di queste, 53,2 milioni sono sfollati interni al proprio paese, mentre 27,1 milioni sono i rifugiati e 4,6 milioni i richiedenti asilo (dati UNHCR). Oltre il 70% dei rifugiati ripara nei paesi confinanti e un terzo dei paesi che accoglie chi è costretto a fuggire è composto da nazioni a basso o bassissimo reddito. L’Europa? “Guarda, raccontandosi di essere invasa, e non si muove”, scrivono nel libro ‘Respinti’ (Altreconomia 2022) Duccio Facchini e Luca Rondi, che argomentano incrociando i dati ufficiali. Che sono impressionanti pur limitandoci a considerare le persone la cui necessità di protezione è già stata verificata da organismi internazionali. “Negli ultimi dieci anni il numero dei rifugiati che necessitavano del reinsediamento dai campi profughi verso un Paese terzo, ovvero le persone più bisognose”, è aumentato dellʼ80%, “dagli 805.535 del 2011 ai 1.445.383 del 2021”. Ma nel 2020 i reinsediamenti effettuati sono stati appena 34.383, il 2,39% del “necessario”. E di questi solo 20 mila sono quelli con destinazione Europa, comunità che conta 500 milioni di abitanti dove “sono in calo sia il numero delle richieste di asilo, sia quello degli ingressi irregolari“. Numeri che è doveroso tener presente, soprattutto quando, come fa Mario Draghi ad Ankara, annunciamo nuovi “corridoi umanitari” per gli afghani rifugiati in Turchia mentre non riusciamo nemmeno a far partire i voli approvati ancora l’anno scorso per appena un migliaio di donne scappate ai talebani e attualmente nascoste in Iran e Pakistan.

Ancora più paradossale è che Draghi manifesti l’affanno dell’Italia che “non ce la fa più” in un Paese, la Turchia, che è attualmente il primo al mondo per numero di rifugiati presenti (3,8 milioni) per la scelta dell’Europa di pagare per bloccare altrove chi vuole appellarsi ai suoi diritti fondamentali, dei quali fa parte quello di chiedere asilo. Le conseguenze? Dopo l’accordo siglato con l’Unione a inizio 2016, in Turchia gli stranieri a rischio di povertà o esclusione sociale sono passati dal 20,2% del 2015 al 46% del 2020 (Eurostat). Tornando all’Italia, il numero di richieste d’asilo presentate nei singoli Paesi Ue è indicativo. Anno dopo anno i dati ci vedono sempre giù dal podio, dopo Germania, Francia e Spagna, spesso seguiti a stretto giro dall’Austria, un paese che conta 9 milioni di abitanti. Nel 2021, a fronte di 67 mila cittadini di paesi terzi arrivati in Italia, Eurostat registra 53 mila richieste d’asilo. Nello stesso anno sono 190 mila quelle presentate in Germania, 120 mila in Francia, 65 mila in Spagna. L’Austria ne registra 40 mila, 28 mila la Grecia. Anche sul fronte del saldo tra le richieste di trasferimenti verso l’Italia, motivate dal regolamento di Dublino sugli obblighi dei paesi di primo ingresso, e i trasferimenti effettivamente portati a termine, l’Italia è ben lontana dalle prime posizioni: nel 2020 l’Ue a 27 ci vede appena ottavi. Tra gli altri, il commento alle parole di Draghi del responsabile immigrazione di ARCI, Filippo Miraglia, è durissimo: “L’Italia, sia sul medio che sul lungo periodo, continua a fare meno di Germania, Francia, Spagna, Malta, Grecia, Cipro, Svezia e di tanti altri Paesi. Cambiano i governi, ma la retorica resta la stessa: un lamento continuo farcito di menzogne, che alimenta razzismo e politiche di chiusura”.

La posizione che Draghi ribadisce in Turchia è coerente con quella sempre sostenuta dall’Italia: l’Unione europea non ha fatto alcun passo avanti sul fronte del Patto sulla Migrazione e l’Asilo che avrebbe dovuto superare gli accordi di Dublino e consentire una distribuzione più delle persone che arrivano in Europa attraversando i suoi confini naturali. Ed è vero che dopo anni siamo alle dichiarazioni di intenti e a un accordo temporaneo – questa la novità – che punta alla distribuzione di 10 mila persone ma sempre senza vincoli e con la possibilità di sostituire all’accoglienza il finanziamento del paese che si terrà i migranti. In tema di immigrazione l’Unione è questa, internamente reticente a darsi regole e a farle rispettare, esternamente prodiga coi paesi terzi che le tolgono le castagne dal fuoco, senza tanto badare al rispetto dei diritti delle persone che affidiamo all’Erdogan di turno. E l’Italia non fa eccezione. Quanto ai limiti, ne ha di propri e anche l’emergenza dei profughi ucraini li sta confermando.

Il Country Report 2021 sull’Italia di AIDA (Asylum Information Database) ricorda come, una volta giunti nel nostro Paese, risulti “ancora troppo difficile chiedere protezione a causa delle prassi non uniformi nelle diverse questure e delle lunghe attese per la formalizzazione della domanda di asilo. Chi riceve un rifiuto può fare ricorso, ma deve attendere l’esito fino a 3 anni (la legge prescrive 4 mesi) a causa della difficoltà a smaltire gli arretrati e dell’inadeguata distribuzione delle risorse”. Sono persone alle quali nel frattempo abbiamo rinunciato anche a insegnare un lavoro: il Sistema accoglienza e integrazione gestito dai Comuni con il terzo settore non può spendere un euro nella formazione professionale dei richiedenti asilo visto che la legge 173 del 2020, voluta da M5s e Pd nel secondo governo Conte, ha deciso di non finanziarla. Ma se poi ottengono lo status di rifugiato e il diritto a rimanere in Italia perdono quello di restare nel Sistema di integrazione perché i posti sono da sempre insufficienti. Eppure nemmeno il governo di Draghi, che definisce la buona immigrazione “una risorsa“, ha un dossier per uscire dalla logica dell’emergenza. Nonostante la riforma del 2020 il sistema di accoglienza in Italia rimane principalmente basato sui Centri di accoglienza straordinaria (CAS), dove gli investimenti sull’integrazione sono a dir poco timidi. Alla fine del 2021, sette richiedenti asilo su dieci erano ospitati in strutture di questo tipo. Quanto ai profughi ucraini, nonostante le promesse del governo e l’impegno della Protezione civile la burocrazia italiana fa si che a quattro mesi dall’inizio del conflitto (a marzo gli arrivi in Italia erano già 40 mila, ndr) l’80 per cento delle persone sia ancora sulle spalle di amici, parenti e italiani solidali che dallo Stato non hanno ancora visto sostegno né alternativa quando non sono più nelle condizioni di ospitare. Tanto che da ogni regione famiglie ucraine decidono di rimettersi in viaggio, verso altri paesi Ue, la Polonia in particolare o la stessa Ucraina perché, riferisce chi ha dato loro accoglienza, non c’è assistenza e si sentono isolati.

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