Gli otto uomini camminano rapidi in fila indiana, il corpo piegato in avanti. Con una mano tengono coperti i loro volti, l’altra è agganciata al compagno di fronte. Sono comandati dai loro aguzzini che li precedono, in due, e li seguono con i fucili spianati. La telecamera di un’abitazione privata piazzata sulla via Yablunska ulica riprende quel passaggio quasi di corsa, pochi secondi poi quel gruppo di ostaggi scompare dal frame. Il breve video è stato pubblicato lo scorso aprile dal New York Times e ha rappresentato l’ennesima prova schiacciante, se ce ne fosse bisogno, dei crimini di guerra commessi dall’esercito russo a marzo, durante il mese dell’occupazione della cittadina di Bucha, a nord di Kiev.

Natalia Verboviyna, in quel video, ha individuato suo marito Andreij: è il secondo uomo in fila indiana. In realtà la donna aveva già vissuto l’orrore qualche giorno prima: “L’ho riconosciuto dal sopra della tuta, in parte rosa, era la sua tenuta sportiva. A inizio aprile un sito web del posto ha pubblicato una foto del massacro commesso alla sede della Agrobudpostach, al civico 144 di Yablunska ulica. Nel cortile posteriore c’erano dei corpi a terra e in mezzo a quell’orrore ho visto quello insanguinato di Andreij. Così ho preso coscienza che era morto, visto che non rispondeva più al telefono da settimane. Il video nel New York Times? In pratica è stata l’ultima volta che ho visto mio marito vivo. Una volta usciti dall’inquadratura della telecamera lui e i compagni della squadra di Difesa Civile sono stati portati nell’area della Agrobudpostach, torturati e poi uccisi. È stata un’esecuzione di massa, il sangue a terra, i segni dei proiettili sulle pareti dell’edificio e sugli scalini. I corpi abbandonati in quel cortile per settimane, fino a quando i russi non sono scappati e la forza ucraina non li ha trovati”.

Yablunska ulica, la via della morte, diventata tristemente famosa per le immagini delle esecuzioni di civili compiute dall’esercito occupante. Sulla stessa strada, lunga svariati chilometri, c’è anche il sito dove Andreij Verboviy e gli altri sono stati uccisi, un edificio su tre piani diventato il quartier generale dei russi durante l’occupazione: “Al piano terra c’erano i prigionieri, al primo il ricovero per i soldati feriti e nei due superiori gli alloggi degli occupanti”, continua Natalia Verboviyna al Fatto.it davanti alla Agrobudpostach. “Mio marito e gli altri sette uccisi a inizio marzo sono rimasti prigionieri poche ore, il tempo delle torture barbare e poi le esecuzioni, in un punto nascosto – il cortile appunto – che dà verso terreni e case basse di campagna. Il giorno in cui i russi hanno invaso l’Ucraina e sono arrivati da nord verso Bucha è stato uno choc per la popolazione. Io, Andreij e nostro figlio abbiamo preparato gli effetti personali e ci siamo preparati a partire. Io e mio figlio siamo fuggiti a Kiev e poi verso la regione dei Carpazi il giorno successivo, la notte tra il 25 e il 26 febbraio. Andreij ha promesso che ci avrebbe raggiunto i giorni successivi, voleva impacchettare le ultime cose, ma quando ci siamo salutati a Bucha quel giorno è stata l’ultima volta che lo abbiamo visto vivo. Andreij la città invasa dai russi non l’ha mai lasciata, da vivo e da morto. Lui si è unito alla Difesa Civile di Bucha”, aggiunge Natalia Verboviyna, “per dare una mano all’esercito che si stava organizzando in difesa della capitale. Non sapeva combattere, non aveva mai maneggiato armi, la sua arte era quella di rigenerare vecchi oggetti abbandonati e logori. Un lavoro il suo, restauratore e falegname, che era al tempo stesso una passione. In città lo cercavano tutti per sistemare un mobile, rigenerarne un altro, aveva le mani d’oro. La sua squadra di Difesa Civile ha organizzato delle trappole e dei blocchi per impedire l’avanzata nemica, ma non avevano forze per opporsi, solo le molotov artigianali, qualche coltello e neppure un’arma. La prima settimana di marzo i russi, entrati a Bucha coi carri armati, li hanno fatti prigionieri tutti e l’epilogo lo conosciamo”.

Tre mesi dopo la fuga degli invasori, ricacciati in Bielorussia, la Agrobudpostach, una società multi servizi, sta tornando operativa. Le macerie lasciate dagli occupanti sono state rimosse e il cortile degli orrori ripulito. Ora a terra i parenti delle vittime hanno piantato o appoggiato dei vasi pieni di fiori che periodicamente vengono a cambiare. “Io ci vengo quasi tutti i giorni, mi faccio un bel pianto, accendo il lumino, tolgo l’acqua vecchia e sostituisco i fiori rinsecchiti dal caldo. Presto qui io e i familiari delle altre vittime erigeremo un sito a ricordo dell’eccidio. Il proprietario della società e dell’edificio non ha opposto alcuna resistenza. Deve restare a futura memoria. Intanto io aspetto che la giustizia faccia il suo corso. Voglio guardare i carnefici di mio marito negli occhi e trasmettere loro la mia rabbia e il mio dolore”. In fila indiana in quel drammatico video del New York Times c’è anche Sviatoslav Turowski, 35 anni, la seconda vittima più giovane del gruppo. Il suo corpo è caduto vicino al muro del palazzo e in quel punto suo padre Oleksandr ha appoggiato un mazzo di splendidi fiori gialli. Si china per sistemarli dentro il vaso e poi scoppia in lacrime, un pianto disperato. Quando si riprende Oleksandr, 72 anni, ci racconta un dettaglio terrificante: “Prima di ucciderlo i ceceni gli hanno strappato gli occhi dalle orbite e poi gli hanno sparato. I soldati che hanno seminato terrore a Bucha erano tutti ceceni e buriati (abitanti di una piccola repubblica russa nella zona siberiana di Ulan-Ude, ndr), dei selvaggi e degli assassini. Non avrò pace fino a quando non verrà fatta giustizia”.

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