La notizia è ufficiale. La Bce ha decretato, la settimana scorsa, l’aumento del tasso ufficiale di riferimento a partire dal 1° luglio (+0,25 punti base) mentre, quattro giorni fa, è stato confermato dalla presidente Christine Lagarde che si attendono ulteriori e “più ampi” rialzi a settembre 2022 (+0,50 punti base) se la prospettiva di inflazione a medio termine dovesse persistere o deteriorarsi. Tradotto: a partire dal 1° settembre, considerate le unanimi previsioni degli analisti sulle dinamiche inflattive, il tasso ufficiale di riferimento sarà del 0,75%!

I piccoli imprenditori, con profonde lacune nelle competenze finanziarie, si aspettano solo di essere sacrificati sull’altare del profitto bancario. Non si interrogano sulla eventuale negoziazione dei prezzi, non si pongono dubbi sulla incidenza dell’aumento sulla loro struttura dei costi. Niente, rimangono solo in attesa della decisione unilaterale della banca. Cerchiamo di fare chiarezza.

Il tasso ufficiale di riferimento della Banca centrale è quello applicato alla maggior parte delle operazioni con la quale la Bce fornisce liquidità alle banche dell’Eurozona. Pertanto questo tasso influenza il costo dell’euro e dei finanziamenti in tutta l’area della moneta unica con effetti a 360 gradi sull’economia e in particolare sui tassi interbancari (Euribor e Eurirs), che, volendo semplificare, sono invece i parametri di riferimento, calcolati giornalmente dalla European Banking Federation (Federazione Banche Europee), che indicano il tasso di interesse medio delle transazioni finanziarie in Euro tra le principali banche europee – ovvero quei tassi d’interesse ai quali le banche si prestano reciprocamente il denaro.

Ma la domanda che mi viene di solito rivolta è: perché mai due banche dovrebbero prestarsi del denaro a vicenda se possono chiederlo alla Bce?

Le semplificazioni sono sempre pretesti per i soloni per storcere il naso ma, preoccupandomi del Sig. Rossi e fregandomene del Prof. Bianchi, posso rispondere che le cause di questo fenomeno sono sostanzialmente due, una dal lato della domanda e una dal lato dell’offerta:

1. Una banca è in carenza di liquidità e richiede denaro ad un’altra banca (per far fronte a scadenze immediate o allargare i propri impieghi) perché ha esaurito il plafond a sua disposizione presso la Bce;

2. Una banca è in surplus di liquidità e cerca un rendimento sul mercato, prestando denaro ad altre banche, maggiore rispetto a quello che offre la Bce.

L’Euribor viene utilizzato come tasso medio applicato da primari istituti di credito per operazioni a termine effettuate sul mercato interbancario con scadenza a una, due e tre settimane, e da uno a dodici mesi. Si tratta del parametro di riferimento per le operazioni di finanziamento a tasso variabile. L’Eurirs è, invece, usato come tasso base per calcolare interessi fissi dei finanziamenti. Per la verità, già da qualche mese, i tassi interbancari iniziavano a manifestare segnali di rialzo (più sostenuti quelli dell’Eurirs rispetto ai leggeri aumenti dell’Euribor), a conferma del fatto che sono sicuramente influenzati ma non sono indicizzati al tasso ufficiale di riferimento e alla politica monetaria decisi dalla Bce. Perché l’aumento del tasso ufficiale di riferimento è una decisione di cosiddetta “politica monetaria”: in questo momento storico è strumentale per dare un freno all’inflazione fuori controllo per via della guerra in Ucraina.

La domanda da porsi, a questo punto, è: quali saranno le conseguenze per le imprese “se i tassi interbancari non sono indicizzati ma influenzati dalla modifica del tasso ufficiale di riferimento della Bce”? L’esperienza mi insegna che il sistema bancario scaricherà l’intero aumento del tasso Bce (0,75%) sull’Euribor e pertanto le rate dei finanziamenti a medio/lungo termine (mutui, leasing, credito al consumo) a tasso variabile aumenteranno proporzionalmente. Ecco perché da anni sostengo, anche su queste colonne, che, considerato terminato il periodo dei tassi negativi e verificata la previsione della curva dei tassi, era preferibile (ed è tuttora preferibile) stipulare mutui a tasso fisso: seppur inizialmente si paga qualcosa in più come rata, nel lungo periodo (un mutuo dura 10-15-20 anni) la somma complessiva da restituire è inferiore rispetto ad un mutuo a tasso variabile.

Nessun margine di manovra perché il contratto di finanziamento parla chiaro: se aumenta l’Euribor, aumenta la rata! Nulla succederà, è ovvio, per i mutui stipulati a tasso fisso. Nel caso, invece, dei fidi per la gestione del capitale circolante (scoperti di conto corrente, anticipo crediti, factoring, anticipo fornitori), laddove l’aumento dei tassi avrà un impatto più limitato e comunque dilazionato, la negoziazione è invece possibile perché le banche, per legge, sono obbligate a comunicare 60 giorni prima la variazione dei tassi di interesse. E in caso di silenzio da parte del debitore, l’aumento sarà applicato automaticamente. Non cestinate, quindi, quelle lettere dal titolo “modifica unilaterale delle condizioni contrattuali” ma, appena vi arrivano, sappiate che avete 60 giorni di tempo per andare in banca e trattare sul prezzo.

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