Sono ben consapevole di andare in direzione opposta alla gran parte dei commenti che vanno contornando la vicenda di Fedez, che ha diffuso in rete un audio della sua seduta dallo psicologo. Del clamore mediatico che vi ha fatto da sottofondo colpisce la banale e generalizzata ondata di plauso: bravo, complimenti, questo è un segno di forza. Insomma, “ne vogliamo ancora!”. L’azione del suddetto, fatta di certo in buona fede, apre però uno squarcio su uno spaccato di società mediatica ove il limite tra pubblico e provato è andato opacizzandosi sino a scomparire.

Tutti coloro che oggi vanno spellandosi le mani dopo aver ‘sentito’ uno stralcio di seduta, felici perché finalmente sono riusciti a mettere il naso nell’intimità di un vip, costituiscono a mio avviso l’avanguardia di un moto pulsionale che obbedisce alla passione del guardone, al piacere di chi scruta l’intimità dell’altro, sfiorando la morbosità. Una curiosità pelosa, diffusa e incoraggiata dal mondo dello spettacolo, che fraintende e confonde il pubblico col privato, raccontandosi la storiella che ascoltare le sedute di un uomo famoso significhi ‘umanizzarlo’.

Molto di ciò che si è detto è vero: condividere il dolore attiene al desiderio di non piegarsi ad esso, alla volontà di non esserne sopraffatti. Parlare pubblicamente della propria malattia significa cercare di vincere l’isolamento che spesso questa comporta. Utilizzare la propria fama mediatica per parlare della caducità del corpo, della finitezza della vita, serve a dare speranza a tutti gli ammalati i quali, schiacciati dal peso della solitudine, dall’essere spesso ridotti a proprio corpo, rischiano una deriva di oblio.

Altra cosa a mio parere è invece condividere pubblicamente le proprie sedute da un analista, anzi le registrazioni delle stesse, azione che risponde invece al desiderio di divulgazione e spettacolarizzazione del proprio intimo, elemento assai in voga oggi; desiderio che risponde ad un bisogno voyeuristico che le masse mediatiche contemporanee pretendono. Il cittadino non è più spettatore, quanto fruitore delle pudenda dell’homo mediaticus che offre in pasto la propria intimità. Uomini e donne dello spettacolo aprono il loro privato al mondo, in una sorta di diretta permanente sugli angoli che dovrebbero restare riservati. Dall’altra parte persone cupe, spesso diffidenti, schive e disinteressate, pagano abbonamenti televisivi per guardare finte rappresentazioni di convivialità e trarne un divertimento. Si chiudono in camera per accendere la tv e godere di liti e disgrazie dei vip con i popcorn in mano.

C’è oggi una bulimia del conflitto altrui, dell’altrui dolore, sbattuto sul palco come spettacolo in quanto tale, privo della drammaticità e della tragicità che questo dovrebbe racchiudere e celare. Uomini e donne con corpi costruiti, asettici, sanissimi e griffati, mettono in scena il loro mal costume, la loro voglia di soddisfare la scopofilia dei guardoni.

Il palco mediatico contemporaneo impone di lasciare sulla soglia ogni pudicizia, ogni barlume di buona creanza, valendo l’assunto: partecipo allo spettacolo mediatico (sono dunque attore-spettatore) in una dimensione né vera né falsa, ma trasmissibile. Corpi sodi e firmati, ma con le viscere in piazza. La seduta ‘registrata’ e diffusa, risponde ad un estensione estrema di questo moto di spettacolarizzazione di qualcosa che dovrebbe restare intimo e privato, quale è il contenuto di una analisi o di una psicoterapia. La seduta dall’analista non è consolatoria, il dolore non viene narrato per ottenere compassione o per sensibilizzare. Il dolore è quel male inevitabile che costituisce un punto dal quale tessere una tela capace di collocare il soggetto nello spazio tempo, per meglio gestire ciò che resta della vita.

Ne è stata mirabile testimonianza l’interpretazione di Silvio Orlando, paziente di ‘Nanni Moretti nel film La stanza del figlio il quale, ammalatosi, fa i conti con quel che gli resta da campare cercando un proprio posto nel mondo. Il fatto che una seduta venga registrata, suona alle mie orecchie come lo stridore delle unghie che graffiano la lavagna. L’analisi non si fa in tre, paziente, analista e pubblico. L’analisi è un luogo particolare, una sorta di ‘no man’s land’ nella città, uno spazio vuoto, una zona franca addobbata con gli affreschi della propria esistenza, che noi diamo in custodia all’analista. E’ la terra di un uomo che piange e rimemora il passato, un uomo che sogna e in quel luogo sa di poter proiettare le diapositive più intime perché garantito dalla sicurezza.

Il concetto delle libere associazioni freudiane non è che il punto di inizio per scavare nei cunicoli delle proprie intimità, quel ‘mare gelato’ di cui parla Kafka. L’analisi non può fare a meno del pudore, arrivando ai nuclei profondi di un soggetto quando è gravemente malato: i familiari, l’incognita del dopo di noi, il timore per chi resta. Un soggetto che parla in seduta e pensa di riportare le proprie parole all’esterno registrandole, non parla al suo analista, ma tiene come punto di riferimento il terzo là fuori. Dunque parla sapendo che quella finestra verrà aperta, dando in pasto le proprie paure, timori, desideri, riducendoli a merce di scambio nella bolgia virtuale. Parlate ad un uomo che sia davvero in analisi, provate a domandargli il contenuto delle sue sedute.

Se costui è realmente in analisi, cambierà discorso con un misto di pudicizia ed imbarazzo, troppo nude e vulnerabili sono le parti intime messe in gioco nella stanza del suo analista.