Elisabetta Mijino, 36 anni, è un’ortopedica specializzata in chirurgia della mano ma anche una campionessa olimpica di tiro con l’arco. Da sportiva, ha segnato 2 record del mondo, giocato 4 paralimpiadi e vinto 30 titoli italiani. Da medico, lavora al Centro traumatologico ortopedico (Cto) di Torino, tra i più importanti d’Europa per la Chirurgia della mano. Per lei è tutto normale, anche se lo fa seduta su una carrozzina. “Adesso c’è una fase in cui il disabile è un eroe. Io non la penso così e non mi piace che l’attenzione e il rispetto per una persona che ha qualche difficoltà in più nascano dai risultati o dalle medaglie che ottiene”.

Ha iniziato il tiro con l’arco quando era piccola su consiglio di un’amica di famiglia, con il tempo si è rivelata una scelta comoda perché le ha risparmiato attrezzature speciali e allenamenti separati, necessari in molte attività paralimpiche: “In questa disciplina, normodotati e persone disabili hanno gli stessi campi, le stesse regole, le stesse competizioni: è uno sport alla pari”. Così dal 2021 è parte della nazionale normodotati, dopo aver partecipato alle paralimpiadi di Pechino, Londra, Rio de Janeiro, Tokyo. La più emozionante è stata la prima, Pechino 2008: “Entrare nello stadio per la cerimonia d’apertura è stato incredibile: il cuore ti batte fortissimo perché entri nel vivo di una competizione che non è ordinaria, non è una cosa che fai tutti i giorni”.

Se per molti atleti lo sport aiuta a conoscere la propria disabilità, per Mijino è stato il contrario. Convive con la carrozzina dall’età di cinque anni e subito dopo il trauma non ha dovuto frequentare centri specializzati o affrontare lunghi percorsi fisioterapici, quindi non ha conosciuto molte altre persone disabili nella vita di tutti i giorni. Dopo un breve ricovero è tornata a casa, nel Piemonte valsusino. “I miei genitori e i miei fratelli mi hanno sempre coinvolta nelle loro attività: giocavo ma senza pensare che ci dovesse essere una squadra diversa per chi come me aveva una disabilità. Spesso non mi pongo il limite”.

Diventare un’atleta paralimpica, per Mijino, ha significato innanzitutto rapportarsi per la prima volta sistematicamente con altre persone con disabilità. “Quando ho iniziato a giocare nella Nazionale avevo già 20 anni, ho imparato a conoscere persone che avevano una disabilità come me ma con percorsi diversi dai miei, magari un incidente da grandi, alcuni avevano perso il lavoro o la famiglia a causa della loro condizione”.

In parallelo è nata la passione per la medicina, che l’ha portata a diventare ortopedico e specializzarsi in chirurgia della mano: “Non è stato un colpo di fulmine, ma una scelta maturata nel tempo e dettata anche dalle potenzialità tecniche della disciplina. Mentre studiavo all’università mi rendevo conto che avrei voluto fare un percorso chirurgico e ho scelto chirurgia della mano perché spazia molto e intreccia ortopedia, chirurgia e chirurgia plastica”. Ma la modalità di svolgimento del lavoro ha contribuito nella decisione, ed è stata una fortuna: “I chirurghi della mano operano la maggior parte delle loro cose da seduti e questo mi ha fatto avvicinare in maniera un po’ più semplice, perché nell’ambito chirurgico la tendenza è stare in piedi”. Per chi è in sedia a rotelle, operare in piedi è comunque possibile ma richiede l’ausilio di sistemi verticalizzanti, strutture che permettono di rimanere quasi supini sul tavolo operatorio. Fuori dalla sala operatoria, però, può essere più complicato. “L’impatto con il pubblico è abbastanza forte. Da parte dei pazienti percepisci che siano un attimo increduli, mi è capitato e lo capisco. Non è comune vedere un medico o un chirurgo in carrozzina e bisogna lasciare il tempo di comprendere e accettare”. È per questo che la parola “inclusività” non convince del tutto Mijino, perché si tende a pensarla come se fosse un risultato immediato invece che un processo, graduale e senza forzature. Per Mijino, “è inutile pretendere un’inclusività a tempo zero, perché non è possibile: dobbiamo solo ammettere che qualcuno ci mette più tempo ad accettare il diverso, che però per fortuna esiste. Questo secondo me è inclusività: avere tempo di capire”.

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