Le scintillanti immagini da cartolina che siamo abituati a ricevere dagli Emirati Arabi Uniti lasciano sempre in ombra un lato B tutto meno che moderno, fatto di repressione e di arbitrio.

A marzo e aprile dieci prigionieri, arrestati nel 2012 durante uno dei consueti giri di vite contro il dissenso hanno terminato di scontare la pena. Eppure, sono ancora privati della libertà.

I dieci fanno parte della cosiddetta “inchiesta sui 94”, attraverso la quale le autorità emiratine si sono sbarazzate, attraverso processi irregolari e confessioni estorte con la tortura, del movimento politico al-Islah, affiliato alla Fratellanza musulmana. Dei 94 indagati, 64 ricevettero condanne inappellabili.

Ai sensi della legge antiterrorismo del 2014, l’ufficio della Procura federale può chiedere ai tribunali di trattenere “persone che hanno adottato idee estremiste o terroriste” anche dopo la fine della condanna. I detenuti vengono trasferiti nelle sezioni delle prigioni chiamate “strutture di consulenza”, le cui direzioni riferiscono ogni tre mesi sulle loro condizioni in vista di una possibile scarcerazione. Una pura formalità.

Contro questa procedura arbitraria non c’è modo di fare ricorso.

Dal 2017, secondo Amnesty International, sono 24 i detenuti rimasti in carcere dopo la fine della pena. Sette sono stati rilasciati nel corso degli anni successivi ma 17 sono ancora nella fase della “consulenza”.

Tra detenuti in “consulenza” e altri che stanno ancora scontando la pena, oggi sono 32 gli emiratini in carcere solo per il pacifico esercizio dei loro diritti alla libertà di espressione o di associazione.

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