I giudici della Corte dovranno esprimersi sulla legittimità costituzionale del controverso requisito dei dieci anni di residenza richiesti per accedere al Reddito di Cittadinanza (RdC). E’ quanto chiede loro la Corte d’Appello di Milano, che in attesa del verdetto ha sospeso la causa proposta da alcuni cittadini europei che si sono visti togliere la prestazione e richiedere dall’Inps la restituzione del sostengo al reddito proprio perché privi del requisito. Che secondo l’ordinanza dei giudici milanesi sarebbe “sproporzionato e discriminatorio” e violerebbe l’articolo 3 della Costituzione oltre a una serie di norme europee. Intanto l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI), i cui legali assistono i ricorrenti nel processo di Milano, ha chiesto all’Inps di sospendere tutte le procedure di restituzione nell’attesa che la Corte si esprima.

La volontà del primo governo Conte di escludere dal Reddito di Cittadinanza tutti coloro che non hanno maturato dieci anni di residenza sul territorio nazionale, espressa dall’articolo 2 del decreto legge 4/2019 sul RdC, è stata fin da subito criticata sul piano sociale come su quello giuridico. Secondo il Report dell’Inps sul RdC di aprile, cittadini comunitari ed extracomunitari rappresentano appena il 12% dei beneficiari della prestazione, ma compongono il 60% dei poveri assoluti presenti nel nostro Paese. Una sproporzione che in gran parte è dovuta al requisito stringente sulla residenza, che non ha pari negli altri paesi europei e che l’Ocse chiede di ridurre proprio perché “dal RdC sono esclusi il 56% dei poveri”. Anche il Comitato scientifico per il RdC istituito un anno fa dal governo ha avanzato la stessa richiesta, auspicando che si potesse scendere almeno a 5 anni, senza però ricevere ascolto dalla politica e nonostante la Commissione europea avesse già chiesto chiarimenti all’Italia.

Così, come spesso accade, le scelte della politica si trasformano in lavoro extra per i tribunali. E a quasi tre anni dalle prime erogazioni, nelle aule stanno arrivando i ricorsi di persone bisognose e in regola coi requisiti patrimoniali ma prive del requisito di residenza, comprese le tante male informate da car e patronati, alle quali l’Inps chiede di restituire quanto percepito. Parliamo di decine di migliaia di procedure e potenzialmente di altrettanti processi. Per questo i cittadini europei che hanno fatto ricorso a Milano hanno chiesto al giudice di interrogare la Consulta o la Corte di Giustizia europea, per un chiarimento che valga per tutti una volta per tutte. “La Corte d’Appello riconosce che un requisito così sproporzionato costituisce una discriminazione in danno dei cittadini stranieri”, precisa l’avvocato Alberto Guariso che assiste i ricorrenti. In particolare, l’ordinanza di rinvio alla Corte chiede di verificare la legittimità del requisito nei confronti dei cittadini comunitari, ricordando che le norme europee impongono parità di trattamento dei cittadini Ue anche nell’accesso alle prestazioni di assistenza sociale (art. 24 direttiva 2004/38/CE).

La Corte d’Appello scrive che il provvedimento persegue lo scopo di “dubbia legittimità” di “aiutare i bisognosi di un inserimento sociale solo in quanto “radicati” nel territorio e non in quanto bisognosi”, e “con mezzi sicuramente non proporzionati e necessari”. E precisa: “Il requisito della residenza decennale risulta sproporzionato perché privo di ragionevole correlabilità (con la condizione di bisogno, ndr) e, quindi, indirettamente discriminatorio proprio in virtù del fatto che non prende in considerazione il grado effettivo di integrazione di quei cittadini europei e loro familiari che, pur risiedendo in Italia da meno tempo o in maniera non continuativa negli ultimi due anni, sono, sulla base di altri concordanti elementi, sufficientemente integrati nel nostro Paese”. Nel commentare il rinvio, l’avvocato Guariso aggiunge che quanto rilevato “vale anche per quei cittadini extra Ue che, in base al loro titolo di soggiorno hanno diritto alla parità di trattamento nelle prestazioni sociali, cioè i titolari di permesso di lungo periodo e i titolari di protezione internazionale: dunque se il requisito cadrà, cadrà per tutti”.

Lo scorso gennaio i giudici costituzionali si erano già espressi su un altro requisito, la titolarità di un permesso di soggiorno di lungo periodo per gli stranieri extra Ue che intendano fare domanda di accesso al RdC. La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata dal tribunale di Bergamo dopo che una cittadina nigeriana con permesso di soggiorno si era vista negare il sussidio dall’Inps. In quel caso, la Consulta ha definito il RdC non solo come un aiuto mirato a soddisfare bisogni primari dell’individuo, ma una misura che persegue “diversi e più articolati obiettivi di politica attiva del lavoro e di integrazione sociale”. E che di conseguenza ha un orizzonte temporale di lungo respiro. Con questo orientamento la Corte ha dichiarato in parte inammissibili e in parte infondate le questioni di legittimità e ritenuto “non irragionevole” il requisito del permesso di soggiorno di lungo periodo, che prevede il soggiorno regolare in Italia da almeno cinque anni. La Corte non si era invece pronunciata sul requisito dei dieci anni di residenza, cosa che invece dovrà fare questa volta nella sua risposta alla Corte d’Appello di Milano. Nell’attesa, scrive l’ASGI in un comunicato, “si chiede ora che l’Inps sospenda ogni procedura in attesa della decisione della Corte e che comunque si metta mano alla modifica di questo requisito che la stessa Commissione Saraceno, nominata dal governo per valutare le proposte di riforma, aveva riconosciuto essere del tutto irragionevole”.

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