Per scrivere la storia possono volerci interi decenni. Ma per rovesciarla, a volte, è sufficiente una frazione di secondo. La quattordicesima Coppa dei Campioni del Real Madrid racconta soprattutto di un tradimento. Quello perpetrato nei confronti di un’Idea: la Casa Blanca come squadra costruita a tavolino per essere soverchiante, una raccolta di figurine che non deve limitarsi a battere l’avversario, ma deve dominarlo. È stato così per anni. Almeno fino a quando la notte di Parigi non ha deciso di raccontare una storia molto diversa. Il collettivo che faceva tremare gli altri si è ritrovato a tremare. Ed è stato costretto ad aggrapparsi al suo eroe. Stavolta il suo identikit non aveva la barba ispida di Karim Benzema, ma la faccia da fumetto di Thibaut Courtois, l’antidivo per eccellenza in un club che sui divi ha fondato la sua tirannia.

L’uomo che per una vita ha strozzato urla di gioia nelle gole degli avversari si è ritrovato a far esplodere di felicità una città intera. Un onore effimero, caduco come foglie gialle. Perché la cultura degli highlights, del tutto in pillole, ha già consegnato alla storia un altro fotogramma. Quello di Vinicius Junior che bacia lo stemma del Real Madrid dopo aver segnato il gol che vale la vittoria. Eppure contro il Liverpool Courtois si è ritrovato a compiere nove parate. Nessuno ne aveva mai effettuate così tante in una finale di Champions League (almeno da quando esistono i referti). Tre interventi hanno del portentoso. Perché raccontano di qualcosa che va oltre la solita retorica dell’ipnosi dell’avversario, dell’imposizione delle mani e dei guantoni. Incarnano la narrazione di un portiere che ha la rivincita come destino, il lavoro su se stesso come stella cometa. In un gruppo che ha elevato la raffinatezza tecnica a sistema, Courtois è sembrato quasi un estraneo. Il suo fisico alto e filiforme gli conferisce un aspetto quasi goffo. I compagni lo hanno soprannominato giraffa, per via di quelle braccia che quando sono protese possono raschiare il cielo. È una storia che si ripete da una vita intera.

Perché il rapporto di Courtois con lo sport è piuttosto complicato. I suoi genitori sono due pallavolisti semiprofessionisti. Eppure decidono di lasciare al figlio totale libertà per quanto riguarda la scelta dello sport da praticare. Courtois a scuola fa un po’ di ginnastica, ma è troppo distratto per riuscire a eccellere. La pallavolo sembra una calamita ineludibile. Invece quando ha cinque anni il ragazzo si siede davanti ai giocatori e annuncia la sua intenzione di giocare a pallone. I club giovanili possono tesserare ragazzi solo al di sopra dei sei anni. Ma insieme a un suo amico sfiniscono il presidente di un club locale fino a strappargli il tesseramento sotto età. All’inizio Courtois viene schierato terzino sinistro. Il rapporto con la porta è solo incidentale, perché a turno tutti i ragazzi sono chiamati a difendere i pali. La svolta arriva quando ha 9 anni. Courtois è entrato nelle giovanili del Genk e si trova a giocare un torneo nella cittadina tedesca di Sodingen. È lì che il suo allenatore Marcel Nies decide di schierarlo stabilmente fra i pali. “All’epoca non era un talento di prim’ordine – ha raccontato anni fa al Guardian il suo ex compagno di squadra Stef Peeters -ma fu subito eletto portiere del torneo”. Il volley resta un compagno di viaggio. È un gioco estivo in cui lanciarsi insieme a sua sorella. Ma è soprattutto un modo per forgiare il suo temperamento. Courtois ha una sensazione. Nella pallavolo ci si allena più che nel calcio. Così ha paura di restare indietro. Come Gondrano, il cavallo della Fattoria degli animali, parla con i dirigenti chiedendo di faticare di più. Poi invia addirittura suo padre a domandare la stessa cosa.

“Thibaut bussava regolarmente alla mia porta per qualche sessione di allenamento extra – ha svelato Gilbert Roex, responsabile dei portieri delle giovanili del Genk – ma non abbiamo esagerato. L’educazione è sempre stata il nostro obiettivo. Viene da una buona famiglia. I suoi genitori gli hanno tenuto i piedi per terra”. È la genesi di un perfezionismo che troverà il suo apice nella partita di sabato scorso. El Mundo ha definito Courtois “il miglior portiere del mondo, un prodigio di elasticità e riflessi combinata con una sensazione permanente di controllo della situazione”. Merito anche del lavoro svolto da Llopis, tornato a Madrid dopo quattro anni, e di Barnerat, che un anno fa si è aggiunto al gruppo al gruppo dei preparatori con l’obiettivo di rafforzare l’uso del piede destro da parte di un portiere mancino. “Ora il suo approccio in questo è completamente diverso – ha detto Barnerat ai media svizzeri – Adesso ogni volta che un avversario va a pressarlo, il messaggio di Thibaut è chiaro: ‘È inutile che ci provi, non mi darai fastidio'”. La forza mentale ha fatto il resto. “Quando ho visto la parata su Radio Mané ho capito: oggi non sarebbe entrato neanche un pallone”, ha detto Gitte, la madre di Courtois. Ed è vero. Perché l’estremo difensore in maglia verde è entrato quasi in uno strato di trance agonistica.

Cercava la partita perfetta e l’ha trovata. In palio per lui c’era molto più di una coppa. Era una questione di rivincite. Dopo le critiche personali che gli erano piovute addosso in seguito alla sconfitta contro l’Ajax nel 2019. Dopo che un paio di mesi fa un giornale non lo aveva inserito neanche fra i primi 10 portieri al mondo. “Non voglio essere il primo, perché Alisson, Oblak, Mendy ed Ederson su tutti sono grandi portieri, ma è una mancanza di rispetto. In una stagione così, non essere nemmeno tra i primi dieci è molto strano”. E ancora: “Ho sentito dire molte cose in Inghilterra, forse per come ho lasciato il Chelsea. Ho vinto due volte la Premier League e non ho mai ricevuto un riconoscimento. Nella mia prima stagione a Madrid in tanti ridevano di me perché non era andata benissimo. Oggi ho vinto ed è stata una bella rivincita nei confronti di chi mi ha criticato”. Courtois l’aveva detto qualche giorno prima della finale: “Segnarmi non è facile”. E ha avuto ragione. Il portiere che per anni ha disinnescato le gioie altrui ora è finalmente diventato il supereroe di Madrid. “Il mio sogno da bambino era di vincere la Champions con il Real Madrid e il Mondiale con il Belgio”, ha dichiarato tempo fa. Ora Thibaut è a metà dell’opera.

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