Poveri buchi neri. Li chiamano ladri usciti dalle tane, “mostri” o “bestie”. Perché poi? Non sono malvagi. Non fanno nulla di male, solo il loro mestiere. Non sono rarità da guardare con terrore. Ce ne sono miliardi, di varia tipologia. Fanno paura, forse perché nessuno sa, per ora, come si siano formati o perché riescano a diventare supermassicci, milioni o miliardi di volte più pesanti del Sole. Sappiamo che sono al centro di quasi tutte le galassie.

Come Sagittario A*, recentemente assurto agli onori della cronaca, per gli amici Sag A* (si legge Sag A Star), 4 milioni di volte la massa del Sole, a 26mila anni luce di distanza dalla Terra.

Di buchi neri ce ne sono forse da 10 milioni a un miliardo nella sola Via Lattea, galassia di cui fa parte il sistema solare e dunque noi tutti. Stesso ordine di grandezza per ognuna dei miliardi di galassie presenti nell’universo. Fate voi i conti.

Vero che fino a oggi solo un paio sono stati “fotografati”, ma non è colpa loro. Solo di recente siamo stati capaci di mettere in posto un sistema di osservazione in grado di “vederli”. Le virgolette sono necessarie, perché li vediamo in modo indiretto. Traduciamo in colore frequenze non visibili a occhio nudo. Le foto dei buchi neri sono artefatti comunicativi.

Due sono i buchi neri osservati e tradotti in immagine. Il primo si trova al centro di Messiere 87, per gli intimi M87, un’enorme galassia ellittica, con raggio pari a circa 150 kiloparsec (1 parsec= 3,26 anni-luce, 1 kiloparsec sono 1000 parsec; facendo i conti 150 kparsec sono 490mila anni-luce), molto più massiccia della nostra Via Lattea (dal latino via lactea, che deriva dal greco γαλακτικός κύκλος (galaktikos kýklos), che si traduce con “cerchio latteo”; diametro apparente fra i 100 e i 200 mila anni-luce; recenti simulazioni suggeriscono che sia circondata da materia oscura che si estende su un diametro di circa due milioni di anni-luce).

Il secondo è Sag A*: 1000 volte meno massiccio del buco nero di M87, 4 milioni di masse solari contro i forse 6,5 miliardi di M87. Se M87 si abbuffa di materia in modo compulsivo ed esagerato, Sag A* è a dieta stretta. Quindi molto meno luminoso. Più difficile da osservare: solo 17 volte più grande del nostro Sole e lontano 27mila anni-luce. Risolvere un’immagine di Sag A* è come risolvere l’immagine di una mela sulla superficie lunare. A rendere le cose ancora più difficili c’è la velocità di rotazione del plasma a 1000 miliardi di gradi centigradi che lo circonda, 1000 volte più veloce di quanto accade intorno a M87, il che modifica il suo aspetto da un minuto all’altro.

Due oggetti stellari totalmente diversi in tutti i loro parametri fisici.
La più grande differenza fra loro? M87 fa parte di un’altra galassia. Sag A* è casa.

Le osservazioni raccolte nel 2017 hanno richiesto due anni di lavoro per elaborare l’immagine di M87, mentre ce ne sono voluti cinque per Sag A*. Le due immagini, più corretto definirle “rendering”, sono molto, molto simili. L’implicazione è che, indipendentemente dalla loro dimensione, quando si arriva al confine di un buco nero, la gravità comanda su tutto.

Quando una stella muore, perché ha esaurito il combustibile nucleare, se è sufficientemente pesante, la gravità supera la resistenza intrinseca della materia e la stella collassa in modo catastrofico. La traccia, il reperto archeologico di quanto accaduto, mentre la materia stellare continua a cadere nel buco che si è generato, verso un destino del tutto sconosciuto, è l’orizzonte degli eventi. Nel suo intorno orbitano i resti del materiale risucchiato e la loro energia illumina la scena. La traiettoria della luce emessa viene modificata dalla curvatura dello spazio causata dalla massa del buco nero. La luce emessa dietro al buco nero viene quindi reindirizzata verso l’osservatore. Non si vede il buco nero, ma il disco di luce che lo circonda. Luce, o meglio radiazione elettromagnetica, che si può osservare.

Proprio quello che fa l’EHT, che sta per Event Horizon Telescope, telescopio dell’orizzonte degli eventi. Un sistema composto da 8 radiotelescopi (LMT-Large Millimeter Telescope, Messico; SPT-South Pole Telescope, Antartide; SMT-Submillimeter Telescope, Mount Graham, Arizona; SMA-SubMillimeter Array, Maunakea, Hawai; ALMA-Atacama Large Millimeter/submillimeter Array, Cile; APEX-Atacama Pathfinder Experiment, Cile; JCMT-James Clerk Maxwell Telescope, Hawai; IRAM 30m, Istituto di Radio Astronomia Millimetrica, Pico Veleta, Andalusia, Spagna) che, lavorando in modo coordinato dal Polo Sud alla Spagna, fanno diventare la Terra un unico gigantesco telescopio virtuale, dalla risoluzione richiesta.

Nel corso di 10 notti consecutive hanno osservato e raccolto i dati di Sag A*. Miliardi di gigabytes. Troppi anche per internet. Più di 1000 dischi di memoria ad altissima capacità sono stati trasportati fisicamente ai due centri di elaborazione dati: lo Haystack Observatory vicino a Boston, Usa, e il Max Planck Institute per la Radio Astronomia a Bonn, Germania.

Le due foto sono la conseguenza di decenni di osservazioni e ricerche. Una tappa del percorso iniziato nel 1918 quando l’astronomo Harlow Shapley osservò, per primo, la congregazione di stelle al centro della Via Lattea. Luogo dello spazio dove vennero poi rilevate potenti emissioni radio che suggerivano la presenza di un oggetto massiccio, ma compatto. Molto compatto.

Un buco nero, soluzione esatta delle equazioni di campo della teoria della relatività generale di Einstein. Soluzione scoperta da Karl Schwarzchild, volontario dell’esercito tedesco nella prima guerra mondiale, in una trincea sul fronte russo, fra una granata e il calcolo delle tavole di tiro per l’artiglieria. La sua soluzione prevede l’esistenza di singolarità su una sfera di raggio determinato, che prende il nome di Raggio di Schwarzchild. Se il raggio di un oggetto stellare è minore del raggio di Schwarzchild, allora tutto ciò che possiede una massa e anche i fotoni, deve inevitabilmente, cadere nel corpo centrale. Quando la densità di massa di questo corpo centrale eccede un definito limite, si innesca un collasso gravitazionale che, se avviene rispettando una simmetria sferica, genera un buco nero. Potenza ed eleganza della matematica…

Le due immagini sono state rese possibili dai risultati della ricerca finalizzata alla capacità di seguire, con altissima precisione, il percorso delle stelle. Ricerca premiata con il premio Nobel per la fisica 2020 assegnato a Roger Penrose, Reinhard Genzel e Andrea Ghez. Penrose per avere dimostrato nel suo lavoro del 1965 che “La formazione dei buchi neri è una robusta predizione della teoria generale della relatività”. Genzel e Ghez per avere svolto fondamentali osservazioni sulle stelle che orbitano nel centro della Via Lattea, suggerendo la presenza di un oggetto supermassiccio, compatto e invisibile. Sag A*, per l’appunto.

L’immagine di Sag A* è bellissima. Un’ombra scura delle dimensioni del nostro sistema solare, avvolta da una splendente bolla. Di cui sappiamo poco o nulla. Nessuna certezza e tanti dubbi, tante domande. Il bello della scienza.

La radiazione raccolta dall’EHT ha viaggiato per 55 milioni di anni. Anni che hanno consentito alla specie umana di creare miti, leggende, religioni, filosofie. Lingue, culture e credenze. Cooperazioni scientifiche che superano le differenze. Dovremmo sempre ricordarci che siamo equipaggio di una minuscola astronave, sotto un piccolo Sole caldo, avvolti da una sottilissima atmosfera, che orbita, in compagnia di stelle intorno a un supermassiccio buco nero.

Un’infinita bellezza che disprezziamo con le nostre inutili guerre, sempre stupide.

Aggiornato da redazioneweb il 25/5 alle ore 9.00

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