La lavoratrice di call center licenziata dopo che è saltata la commessa per la compagnia pubblica Ita. Il giovane infermiere che lavora 12 ore per tre giorni di fila e ancora aspetta l’indennità Covid promessa dal 2020. Le operaie costrette a svegliare i figli prima dell’alba per riuscire a fare i turni imposti dall’azienda che lavora in appalto per un grande gruppo quotato. Il dipendente lasciato a casa dalla ditta cinese del pronto moda per aver chiesto il rispetto del contratto (e ora alle prese con il permesso di soggiorno in scadenza). La guardia giurata mandata allo sbaraglio senza alcuna formazione su come comportarsi in caso di emergenza. L’addetta alla mensa Eni reduce da quasi due anni di cassa integrazione, durante i quali per pagare l’affitto ha dovuto chiedere aiuto alla madre pensionata. Sono i lavoratori – soprattutto giovani e donne – lasciati indietro da una ripresa post Covid che, nonostante il forte rimbalzo del pil, si è rivelata estremamente avara quanto a salari e qualità dei posti. Le storie raccolte da ilfattoquotidiano.it sono solo la punta di un iceberg: se il numero degli occupati a marzo è tornato ai livelli pre pandemia, i precari sono al massimo storico, il 66% dei part time è involontario, sfruttamento e paghe indegne sono tutt’altro che eccezioni. E ora è arrivata anche l’impennata dell’inflazione, che erode di giorno in giorno il potere di acquisto di salari con cui già prima era complicato arrivare a fine mese.

“Dopo il cambio di appalto ci hanno chiesto di fare due turni. Svegliavo i miei figli alle 4 del mattino e li andavo a riprendere alle 23”
Sara (nome di fantasia) ha 29 anni e due figli piccoli di quattro e sei anni che cresce da madre separata. Per questo, quando la Lis Group di Bologna, azienda che lavora in appalto per il colosso dell’abbigliamento Yoox, ha cambiato le fasce orarie costringendola a iniziare all’alba, per lei è stato ancora più difficile arrivare a fine mese. “Nella primavera del 2020 ci hanno comunicato che saremmo passati da un turno unico centrale a due: il primo dalle 5.30 alle 13.30, il secondo dalle 14.30 alle 22.30”. Una modifica arrivata dopo il cambio di appalto e inizialmente motivata con le esigenze richieste dalla pandemia, anche se poi l’azienda non è più tornata indietro. E l’impatto sulla vita di molte operaie è stato pesantissimo. Alcune, quelle che hanno potuto, si sono arrangiate con i parenti, i nonni e gli zii, o con il compagno. Altre sono state costrette a pagare qualcuno per tenere i figli. “Li svegliavo alle 4 del mattino, li portavo da una signora che poi alle 8 li accompagnava a scuola. Stessa cosa a fine giornata. Li andavo a prendere alle 23, quando finivo. Di 1200 euro di stipendio, metà se ne andava per la baby sitter e metà per l’affitto. È stata dura. A volte mi hanno chiamato da scuola, chiedendo di andare a prendere mio figlio perché malato. Ma era solo stanco. Non era umano quel ritmo”. Alla Lis Group la manodopera è costituita in gran parte da donne. Sara lavora lì da 8 anni, si occupa del controllo qualità dei capi che poi vengono imbustati e spediti nelle case di tutta Italia. Nell’inverno scorso è stata una delle protagoniste di una battaglia sindacale portata avanti dal sindacato Si Cobas per chiedere di tornare a orari di lavoro meno penalizzanti. “Non abbiamo mai domandato nulla di impossibile, solo di essere madri e lavoratrici. E di non dover scegliere tra le due cose”. Anche grazie al ricorso presentato dalla consigliera di parità dell’Emilia Romagna Sonia Alvisi, a fine 2021 il tribunale ha dato loro ragione, riconoscendo “la discriminatorietà” della nuova organizzazione del lavoro su due turni, soprattutto per le operaie “con figli minori in tenera età”, e ha dato all’azienda tre mesi di tempo per riorganizzarsi. I turni ora sono stati cambiati ma la questione non è ancora chiusa. “L’azienda ha fatto appello. Non sappiamo cosa succederà” dice Luisa (altro nome di fantasia), da 13 anni operaia nel magazzino. Anche lei ha un bimbo piccolo. “Quest’azienda è cresciuta sulle nostre spalle e grazie al nostro lavoro. Abbiamo sempre dato tanto. E ora che abbiamo deciso di avere dei figli ci tratta così”.

La lavoratrice licenziata dopo lo stop alla commessa per Ita: “Lo Stato rinnega se stesso e abbandona i lavoratori”
“Per carattere sono combattiva ma per la prima volta, pochi giorni fa, ho pianto di rabbia“. Nadia Cortegiani è una dei 221 dipendenti della sede palermitana di Covisian licenziati perché l’accordo per il call center della compagnia pubblica Ita Airways non è stato rinnovato. “Per strappare la commessa Covisian aveva offerto un servizio basato su retribuzioni dell’11% al di sotto dei minimi tabellari. Nel call center Ita avrebbero dovuto gradualmente confluire anche altre 300 persone che prima lavoravano per Almaviva e che ora sono in cassa integrazione a zero ore. Con la fine del contratto siamo dunque 543, inclusi i colleghi di Rende, a restare senza un lavoro e uno stipendio”, spiega Nadia. I dipendenti provenivano da Almaviva e sono passati a Covisian per la clausola sociale per cui la società che subentra in un appalto deve assicurare continuità occupazionale. Con il trasloco però sono arrivati la perdita dell’anzianità e il taglio del 30% dello stipendio. “La pima comunicazione è arrivata il 31 marzo, di notte. Poi, il 7 aprile, la notizia dell’avvio della procedura di licenziamento. Da allora l’azienda è muta”. Eppure, continua Nadia, “abbiamo esperienza, siamo qualificati e formati. Quello per una compagnia aerea non è un servizio di call center comune. Facciamo biglietteria, facciamo viaggiare malati, animali, strumenti musicali…lo stesso personale di Alitalia ci chiamava per sapere cosa fare. Per formare una persona servono minimo 6 settimane”. E non si possono “buttare via così più di 500 persone, molte delle quali hanno famiglia, figli. Vorrei dire ai ministri Giorgetti, Orlando e Franco che seguono la vicenda di riflettere su quello che sta accadendo. Questo è lo Stato che rinnega se stesso eludendo la clausola sociale e abbandonando i lavoratori. Ad essere a rischio non sono solo i lavoratori di Covisian ma tutte le 30mila persone che oggi in Italia lavorano in un call center. Se neppure lo Stato rispetta le regole e le garanzie minimali per i lavoratori dà il via libera alle aziende private a fare quello che gli pare. Ci dicono che Giorgetti non può fare nulla, che il Tesoro non può fare nulla…ma come è possibile se il ministero controlla il 100% della compagnia? Cinquecento persone rischiano di perdere il lavoro e sento parlare di bonus per Altavilla (presidente esecutivo di Ita, ndr). Mi cadono le braccia”.

Il giovane infermiere: “Lavoriamo per 36 ore con un solo riposo”. E l’indennità Covid non è ancora arrivata
“In corsia vedo ragazzi giovani, come me. Ma ci mancano punti di riferimento: i più anziani hanno scelto di troncare e di seguire strade diverse. È il caso di alcune colleghe che ora si occupano di pasticceria”. Federico Maffei, 26 anni, fa l’infermiere a Monza. Ha iniziato a lavorare nel marzo del 2020, quando il peggio stava per arrivare. Da allora i concorsi pubblici hanno aperto le porte ai neolaureati ma, racconta, gli ingressi non hanno compensato le uscite: “Lo si vede sulle turnazioni e gli orari. Tre giorni di fila da 12 ore l’uno e poi un solo riposo: questa è la nostra normalità”. Cioè 36 ore consecutive. “Io non cambierei mai questo lavoro per un altro”, continua, “Ma le condizioni mettono alla prova: stress, scarsa considerazione sociale ed economica, poco potere decisionale“. Mentre gli stipendi sono al palo, spiega Andrea Bottega, segretario nazionale del sindacato NurSind. “L’indennità finanziata dal governo Conte con 335 milioni di euro, che ci spettava da gennaio 2021, ci arriverà forse a settembre. Con oltre un anno e mezzo di ritardo. E in 13 anni abbiamo avuto un aumento contrattuale di 80 euro lordi, in totale. Tutti a chiamarci eroi, ma poi le bollette come la paghiamo?“. E questo spiega anche la carenza di personale, “problema strutturale e storico di questa professione, che il Covid ha solo amplificato”. In media ci sono circa 100mila lavoratori in meno rispetto al necessario. I giovani “non vogliono imbarcarsi in un lavoro con turni massacranti e poco riconoscimento sociale”, gli adulti dopo due anni di pandemia lasciano. “Arrivati a un certo punto, non ce la fanno più. Preferiscono abbandonare il tempo indeterminato per fare altro”.

Il lavoratore del pronto moda: “La ditta cinese pagava mille euro al mese per 12 ore al giorno, poi ha dimezzato la paga”
“Sappiamo che per la legge italiana dovresti lavorare 8 ore, ma questa è un’azienda cinese e le regole le facciamo noi. Non ti va bene? Cerca altrove”. Questa è la risposta ricevuta da Noor Zaman, 33 anni, quando ha osato chiedere al suo capo il rispetto del contratto di lavoro, prima di essere licenziato via Whatsapp, il giorno di Pasqua. “Per sette mesi mi hanno pagato 1.000 euro al mese, lavoravo 12 ore al giorno tutti i giorni, senza riposo, con decurtazioni in caso di ritardi o malattie. Piegavo e confezionavo centinaia di vestiti e magliette, mettevo i cartellini e caricavo le macchine. Era faticoso, ma con quella cifra riuscivo a pagare l’affitto e aiutare mia moglie e mio figlio in Pakistan – spiega l’operaio, che vive a Poggio Caiano in un monolocale con tre connazionali – La situazione è degenerata quando a settembre mi hanno comunicato che avrebbero abbassato la paga mensile a 500 euro”. Noor è arrivato in Italia nel 2016 attraversando, a piedi, Iran, Turchia, Bulgaria, Serbia, Croazia e Slovenia: “Tre mesi di botte e respingimenti alle frontiere. In Italia ho ricevuto un permesso sussidiario che ho convertito in permesso per lavoro”. Per cinque mesi ha continuato a lavorare a quelle condizioni nel pronto moda di Campi Bisenzio: “Mi rendevo conto di lavorare come uno schiavo, ma mi serviva per rinnovare il permesso di soggiorno”. Poi ha deciso di rivolgersi al sindacato di base che da anni segue le vertenze del distretto tessile di Prato: “Non è facile denunciare, perché non sappiamo quando (e se) ci daranno ragione, e nel frattempo dobbiamo farci aiutare dagli amici di altre fabbriche per vivere”. A seguito delle segnalazioni del Si Cobas, l’ispettorato del lavoro ha verificato condizioni di irregolarità ai pronto moda Feng Shouqinq e Hu Qingong di Campi Bisenzio (6 operai su 13 impiegati senza contratto) e ha imposto il blocco della produzione: “Ma due giorni dopo l’azienda ha riaperto, continua a lavorare, e gli unici che rischiano di rimetterci sono gli stessi dipendenti trovati senza documenti”, spiega Noor. “Alla fine ci daranno ragione, speriamo solo facciano in fretta: a giugno mi scade il permesso di soggiorno”. Il Primo Maggio un imprenditore di San Sepolcro si è detto disponibile ad assumere nella propria azienda Noor e i suoi colleghi licenziati.

La guardia giurata: “Per poco più di 1000 euro al mese ci mandano allo sbaraglio senza formazione”
“Alla seconda settimana di lavoro mi hanno mandato a intervenire durante l’assalto a un bancomat. Per fortuna quando sono arrivato i rapinatori se ne erano andati: non avevo la minima idea di come avrei dovuto comportarmi, a parte mettere il giubbotto antiproiettile“. Emy Francato, 31 anni, un figlio e un altro in arrivo, fino al 2019 faceva il cuoco. Ha deciso di cambiare lavoro perché voleva metter su famiglia e sperava di avere più tempo libero. Non è andata così: ora che è guardia giurata gli capita di uscire alle 17 e tornare alle 5 del mattino dopo. “Gli orari sono massacranti. Capita di dover piantonare una casa o un’azienda e poi esser mandati a fare il pattugliamento notturno. E chi lavora di giorno arriva tranquillamente a 13-14 ore”. In più c’è la costante preoccupazione per la propria sicurezza: “Ci mandano allo sbaraglio, senza alcuna indicazione operativa. L’unica formazione che riceviamo in azienda (la Fidelitas, uno dei maggiori gruppi del settore ndr) consiste in un corso di 48 ore“, racconta. “Per risparmiare sugli affiancamenti si limitano a metterti in mano le chiavi e qualche foglio che dovrebbe fare da manuale”, conferma il collega Christian, che ha la mansione di “interventista” in caso di allarmi. “Quando arrivi sul posto controlli la centralina, ma se non sai usare il sistema rischi di non capire che cosa è successo dentro, per esempio se una finestra è stata sfondata”. Proprio quello della formazione è uno dei fronti di scontro su cui si è consumata la rottura tra sindacati e associazioni datoriali sul rinnovo del contratto nazionale di categoria (vigilanza privata e servizi fiduciari), scaduto da sette anni. Quello firmato nel 2013 e applicato ancora oggi è famigerato per i salari di ingresso infimi: per la vigilanza non armata, che include portieri e custodi, poco più di 800 euro al mese per un full time. “Per noi guardie armate si parte da 1.072 euro. Con gli scatti si sale di poco: oggi sono al quinto livello e ne prendo circa 1.300. Per arrivare a 1.500 dovrei fare una montagna di straordinari, almeno 60 ore”.

L’addetta della mensa Eni: “Con Covid e smart working due anni di cig a 5-600 euro”
“Prima della pandemia preparavamo 8mila pasti al giorno. Con l’arrivo del Covid ne è rimasta aperta solo una, in cui facevamo qualche centinaio di cestini da portare in ufficio per chi veniva a lavorare in sede. Io, che avevo un full time da 8 ore al giorno, mi sono ritrovata a lavorare pochissime ore. E da uno stipendio di circa 1.200 euro sono arrivata a prenderne 5-600 di cassa in deroga. E ho fatto cig per quasi due anni”. Lucia lavora per la società che gestisce, in appalto, le mense dell’Eni a San Donato Milanese: prima la Compass, poi – dopo un cambio di appalto – la tedesca Dussmann. Per il suo tipo di attività ovviamente lo smart working non esiste e quello degli altri – i dipendenti del gruppo pubblico per i quali prepara il pranzo – le ha più che dimezzato la busta paga. Nel 2021, l’anno del rimbalzo del pil, “le altre mense pian piano hanno riaperto, ma rispetto al pre Covid resta un drastico calo: i pasti sono non più di 2.500“. E la copertura dell’ammortizzatore a un certo punto è finita: “Siamo rimasti senza per qualche mese. Io, che vivo da sola in affitto e non avevo soldi da parte, a 56 anni ho dovuto chiedere aiuto a mia madre pensionata. E ho ancora degli arretrati che ora sto cercando di saldare. Solo da settembre sono tornata a tempo pieno. Come me tante altre colleghe, in alcuni casi madri sole. Alcuni lavoratori sono andati in pensione, altri hanno preferito cercare un altro posto: siamo rimasti in una cinquantina, il 60% rispetto a prima”.

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