“Ricerca del profitto con modalità, termini e proporzioni prevalenti sulla tutela della dignità, della salute e della sicurezza“, diffusione “trasversale a molti settori dell’economia” del delitto di intermediazione illecita di manodopera, sistemi organizzativi che scaricano “sui lavoratori, rectius sulla loro pelle, i deficit strutturali e e organizzativi dell’ambiente di lavoro”. È il quadro emerso dopo un anno di audizioni e sopralluoghi sul campo (da Latina a Prato) svolti dalla Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia, sullo sfruttamento e sulla sicurezza. Anche se ad attirare l’attenzione è stata soprattutto la stima sull’impatto delle morti bianche sul pil, le 400 pagine della relazione intermedia depositata lo scorso 21 aprile sono istruttive anche su molti altri aspetti. Nei giorni delle polemiche sulla presunta mancanza di manodopera “causa reddito di cittadinanza” e sui giovani descritti come scansafatiche, il Senato attesta che lo sfruttamento del lavoro “si registra in ogni campo lavorativo: edilizia, sanità, assistenza, case di cura, logistica, call-center, ristorazione, servizi a domicilio, pesca, cantieristica navale”.

È quello che la commissione definisce “caporalato urbano” ai danni di “un incontrollato bracciantato metropolitano per lo più straniero” spesso costretto ad “accettare qualsiasi condizione di lavoro, con retribuzione indegna“. Tanto che i senatori propongono di introdurre nel Codice penale una nuova fattispecie di reato nei confronti di chiunque, con violenza o minaccia, costringe il lavoratore ad accettare “trattamenti remunerativi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate e, più in generale, condizioni di lavoro contrarie alle leggi ed ai contratti collettivi, ovvero a rinunciare a diritti spettanti in relazione al rapporto di lavoro (quali riposi, ferie, permessi, congedi, eccetera), procurando a sé o ad altri un ingiusto profitto”. Una descrizione che si applica bene a tante delle storie raccontate da ilfattoquotidiano.it nell’ambito della campagna No al lavoro sottopagato e nella videoinchiesta a puntate dello scorso anno sui lavoratori stagionali. La sanzione dovrebbe consistere secondo la Commissione nella reclusione da cinque a otto anni e nella multa da 5.000 a 15.000 euro, aumentata da un terzo alla metà se i lavoratori sono più di tre, sono stranieri irregolari o minori.

L’inchiesta parlamentare si è focalizzata in particolare sulla logistica, oggetto negli ultimi anni di clamorose inchieste come quelle che hanno coinvolto Ceva Logistics, Uber Italy, Dhl Supply Chain Italy. Complice il massiccio utilizzo di algoritmi per gestire i tempi di lavoro e massimizzare le performance, spiega la relazione, il “processo di estrazione del profitto dal lavoro catalizza la precarietà dell’occupazione attraverso lo sviluppo del fenomeno dell’intermediazione illegale della forza lavoro e del meccanismo delle finte cooperative“, costituite ed estinte per la durata di un appalto o di un subappalto con l’obiettivo di garantire ai lavoratori meno diritti e meno tutele di quelli previsti dal contratto nazionale di categoria della Logistica e Trasporti. Il sistema è ben noto: il grande gruppo della logistica si interfaccia con il cliente finale ma la gestione dei processi e poi, a scendere, le attività vere e proprie sono affidate a fornitori sempre più piccoli. Una catena di appalti e subappalti che finisce per “scaricare i costi sugli attori più vulnerabili della filiera, ovvero le piccole cooperative ed imprese di facchinaggio“, cosa che si è accompagnata a “una tendenziale regressione delle condizioni contrattuali e salariali degli occupati difficile da rivendicare da parte dei sindacati”, al netto delle lotte del sindacato intercategoriale Si Cobas nei magazzini e distretti logistici dell’Emilia-Romagna e della Lombardia.

“Nel comparto esistono fenomeni di severo sfruttamento lavorativo con controlli e ritmi serrati che ricalcano le condizioni di lavoro nelle catene di montaggio degli anni Sessanta“, si legge nella relazione. Un sistema da cui traggono vantaggio le grandi aziende del comparto, che affidano la gestione dei magazzini attraverso gare d’appalto in cui premia il ribasso sul costo della forza lavoro ma mantengono “le mani pulite in merito alla questione” presentandosi come “vittime dei consorzi di cooperative”. Una ricerca svolta nell’area metropolitana fiorentina attraverso interviste a camionisti, corrieri e magazzinieri offre uno spaccato delle conseguenze per i lavoratori: straordinari non pagati, negazione del riposo settimanale, giorni di ferie cancellati, minacce di cambio dei turni o trasferimento in sedi lontane dalla famiglia, sospensioni dal lavoro, in alcuni casi irregolarità nel versamento dei contributi.

Secondo la Commissione, la pervasività di questi fenomeni richiederebbe una tutela normativa più stringente. Oggi per esempio i lavoratori in appalto non hanno alcuna garanzia di parità di trattamento economico e normativo: l’articolo 29 del decreto legislativo 276 del 2003 si limita a prevedere la responsabilità solidale del committente per i crediti retributivi vantati dai lavoratori verso l’appaltatore. Per quanto riguarda la somministrazione fraudolenta di lavoro, in particolare il ricorso a cooperative spurie con l’obiettivo di eludere il contratto nazionale e ridurre le tutele per i lavoratori, il decreto Dignità ha reintrodotto il reato che era stato depenalizzato dal Jobs Act ma i responsabili rischiano solo una sanzione pecuniaria di 20 euro per ogni lavoratore coinvolto e per ogni giorno di utilizzazione, “previsione assai blanda e di contenuta deterrenza”. Ma la maggiore lacuna riguarda, stando alla relazione, l’assenza di una fattispecie di reato autonoma che punisca chi consapevolmente beneficia del lavoro in condizioni di sfruttamento. Le norme del decreto legislativo 231 sulla responsabilità amministrativa delle aziende si applicano ai reati commessi da soggetti interni alla società per procurarle un vantaggio: non bastano quando tra la beneficiaria e le cooperative appaltatrici c’è una girandola di società carosello, cosa che “comporta un’immunità di fatto delle imprese controllanti”.

La proposta dei senatori è di modificare l’articolo sulla somministrazione fraudolenta prevedendo una pena da uno a sei anni se il fatto “si accompagna a una situazione di sfruttamento” e i lavoratori reclutati sono più di tre, sono coinvolti minori o il lavoro svolto li ha esposti a “situazioni di grave pericolo” e stabilendo una sanzione nei confronti dell’ente. Infine, all’articolo 603 bis del Codice penale su Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro andrebbe inserito un nuovo comma che preveda la reclusione da uno a sei anni e la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato anche per chi “ricorre consapevolmente ai servizi, oggetto dello sfruttamento, prestati da una persona che è vittima” di uno di quei reati. Ovviamente, i nuovi reati servono a poco se non si riesce a rafforzare l’attività di controllo: come rileva la commissione, per ovvi motivi “sono rarissime o pressoché inesistenti le denunce presentate dai lavoratori e dalle lavoratrici oggetto di sfruttamento”.

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