Cinema

Arthur Rambo, ascesa e caduta del “blogger maledetto”. Da una storia vera l’analisi sul condizionamento dei social sulle nostre vite

Nel film breve e risoluto c di Laurent Cantet – nelle sale italiane dal 28 aprile grazie a Kitchenfilm – c’è così tanto materiale umano e politico contemporaneo da fare spavento

di Davide Turrini

Ribellione o integrazione? Rabbia antisistema o accettazione dello status quo? E ancora: quanto l’universo social condiziona oramai la percezione culturale del reale? In un film breve e risoluto come Arthur Rambo – Il blogger maledetto di Laurent Cantet – nelle sale italiane dal 28 aprile grazie a Kitchenfilm – c’è così tanto materiale umano e politico contemporaneo da fare spavento. Karim D. (Rabah Nait Oufella, visto ne La Classe, Diamante nero, Raw), è un ragazzotto di origine algerina della banlieue parigina che viene intervistato in prima tv nazionale dopo aver scritto un romanzo d’esordio, Lo Sbarco, sulla vita migrante della madre. Tutto attorno a lui brilla di entusiasmo politicamente corretto, proprio come quel sorriso largo e impostato che il ragazzo ha stampato entusiasticamente sul viso: la case editrice linda e impegnata che macina incassi, popolarità e tweet; la produttrice super impegnata che vuole del libro vuole farne un film diretto da Karim stesso; i colleghi del “settore” e dell’ “ambiente” che conta, dolcevita e occhiali dalle montature giuste, che ballano ebbri di status sociale progressista in un appartamento tutto vetri a specchio sulla notte di Parigi.

Giusto qualche ora di baldoria misurata, sciccosa, pulita, e scoppia lo scandalo che sporca Karim D. con impressionanti schizzi di merda. Online, su Twitter, viene mostrato che Karim D. è lo stesso “Arthur Rambo” che negli anni precedenti, quelli in cui il vero Karim organizzava una web tv seguitissima sulle periferie e costruiva il suo stile letterario, postava sarcastici tweet dal tono omofobo, razzista e antisemita. Nel giro di una notte, ovviamente, Karim viene demolito sui social, sui media e lo abbandonano tutti: dall’assistente dell’editore che sprizzava gioia professionale da tutti i pori alla fidanzata “bianca” francese; i ragazzi della sua web tv, perfino la mamma tornata dal lavoro redarguita dal suo padrone per le malefatte del figlio. Karim si rifugia così nell’appartamento alveare periferico della sua famiglia cercando di porre rimedio di senso in un’intervista esclusiva (“era un esperimento artistico letterario”) e contando solo sulla sincera fedeltà e ammirazione del fratello minore.

Liberamente ispirato al vero e pressoché identico caso di cronaca di Mehdi Meklat (che usava lo pseudonimo Marceline Deschamps), Arthur Rambo scoperchia il vaso di pandora delle apparenze “integrazioniste” della società francese ancora in bilico sul binomio politico novecentesco sinistra-destra quando invece è proprio l’immigrato di seconda generazione, che ricetta comune vorrebbe intento a farsi accettare dall’ambiente progressista che domina i media, a celare odio politico derivante da reali condizioni di classe. Il cortocircuito concettuale è tradotto con maestria da Cantet in una messa in scena compressa temporalmente e spazialmente, costituita da un pedinamento mai troppo asfissiante del protagonista (non è l’individuo in sé e il suo respiro a contare, ma la sua traiettoria pubblica e sociale che improvvisamente scende in picchiata) e da un preciso fulminante tratteggio socio-antropologico dei personaggi in scena. Una constatazione, per nulla amichevole, dello stato delle cose analizzato con sintetica e precisa attenzione al dettaglio, come in molti precedenti film di Cantet (su tutti La classe) che non implica giudizi morali ma che lascia sospesi interrogativi etici e un finale aperto dove “non si riesce più a pensare”.

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