Per le mie posizioni contro la guerra in Ucraina vengo tartassato dagli opposti imbecilli. Da un lato abbiamo i patetici nostalgici di Breznev, che scambiano Putin con Lenin. Ma questi sono una minoranza più che altro folkloristica e in via d’estinzione, anche perché nessuna persona sana di mente può ritenere che la proposta di società formulata dall’attuale gruppo dirigente russo possa costituire un’alternativa valida al capitalismo. Dall’altro, ben più pericolosi e numerosi, abbiamo i fan della Nato, vittime a loro volta del lavaggio del cervello sistematico avviato da tempo da televisioni e giornaloni, stoicamente pronti a combattere fino all’ultimo ucraino, mentre sgranocchiano popcorn sul divano di casa e auspicano giulivi un nuovo Afghanistan alle porte dell’Europa, se non addirittura un first strike nucleare che metta fine all’esistenza dei russi e della Russia.

Minoritari sul piano sociale, costoro costituiscono la stragrande maggioranza delle forze politiche rappresentate in Parlamento: dai fratelli italici che auspicano, come La Russa, che i soldi del reddito di cittadinanza finanzino le armi, sperando in cuor loro di poter rinverdire in tal modo i fasti passati di nonno Benito, che invase la Russia al seguito di zio Adolfo, alle Sturmtruppen lettiane, forti della massiccia presenza della nomenklatura piddina nei gangli decisivi del complesso militare-industriale italiano.

La situazione sul terreno resta pericolosa e irta di incognite. Occorre registrare l’importante iniziativa di Erdogan che parrebbe essere riuscito a far fare qualche passo avanti al negoziato. Del tutto paradossale che alla fine il nullismo degli europei e le cautele dei cinesi abbiano prodotto il protagonismo del dittatore turco, personaggio affamato di grandeur e intelligentemente consapevole degli spazi che si aprono alla sua iniziativa nell’attuale situazione internazionale in rapida transizione. Ovviamente Erdogan lo fa anche per far dimenticare i crescenti problemi della società turca, anche e soprattutto sul piano economico, nonché la sua sistematica e sanguinosa repressione del dissenso interno e i crimini di guerra e contro l’umanità di cui è accusato dal popolo kurdo. Sarebbe quindi più credibile se il suo utile ruolo di mediazione si accompagnasse a una ripresa del dialogo con Ocalan e il Pkk e più in generale all’apertura di una nuova fase della storia turca contrassegnata da effettiva democrazia. Ma non è il caso di farsi troppe illusioni al riguardo.

I contenuti dell’accordo di pace sono attualmente in via di definizione e a quanto pare prevedono l’auspicata neutralità dell’Ucraina, la cui sovranità dovrebbe essere garantita da un accordo internazionale sui cui contenuti occorrerà vigilare attentamente affinché non producano un rientro della Nato dalla finestra.

Più intricato il nodo dei territori contesi, specialmente il Donbass. La liberazione di Mariupol dai nazisti “kantiani”, amati da Gramellini e non solo da lui, sembra aprire la prospettiva, da tempo tracciata in risposta ai fatti di piazza Maidan e del conseguente cambiamento del regime ucraino, della piena autodeterminazione della popolazione del Donbass, la quale dovrebbe essere chiamata, sotto supervisione internazionale, a decidere il proprio destino in conformità a un fondamentale principio del diritto internazionale.

E’ tuttavia vitale che, dopo una guerra sciagurata e densa di odio reciproco come quella che stiamo vivendo tuttora, si possa aprire un cammino di dialogo e riconciliazione tra Russia e Ucraina, come pure tra Russia e Occidente. Desta molte preoccupazioni, specie da tale punto di vista, il ruolo degli Stati Uniti, che hanno ben compreso che dalla guerra e dalla sua continuazione, magari sotto altra forma, possono trarre evidenti benefici su vari piani, da quello economico a quello politico, ideologico e strategico. Si teme pertanto che gli Stati Uniti e la Nato possano rallentare e boicottare i negoziati di pace in corso, come dimostrato già dalle inopportune esternazioni di Biden che hanno suscitato perplessità perfino in Macron. Importante è il ruolo dei rapporti culturali colle nazioni in conflitto che vanno ripresi e sviluppati, come suggerito da questo appello.

Agli italiani e agli europei il compito di emanciparsi finalmente dalla sudditanza nei confronti di tale sempre più ingombrante e scomodo alleato, operazione che richiede la sostituzione di tutta l’attuale indegna classe dirigente europea. Per noi italiani, in particolare, si tratta di porre fine al governo Draghi e di lanciare una lotta approfondita e prolungata ai suoi due idola, il neoliberismo e l’atlantismo, tenendo conto del fatto che tale lotta si svilupperà in un contesto sempre più degradato per gli effetti della guerra e della crisi economica del sistema capitalistico, fenomeni che come sempre vanno di pari passo.

La decisione di fondo da assumere dovrà essere, in tale quadro, se dedicare sforzi e risorse alla guerra, quindi agli armamenti, oppure alla ristrutturazione ambientalista e a una rinnovata egualitaria e democratica coesione della società italiana ed europea. Vasto programma che necessita di tirare fuori dalla naftalina il socialismo, quello vero.

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