Un certo candore politico e la tendenza alla gaffe fanno da sempre parte del personaggio Joe Biden. Il presidente americano ha spesso espresso le sue opinioni con una scelta sbagliata dei tempi e delle parole. Non fa eccezione la battuta pronunciata al termine del discorso di Varsavia, quel “in nome di dio, quest’uomo non può restare al potere, che è stata globalmente vista come la richiesta statunitense di un regime change a Mosca. In realtà l’amministrazione americana non sembra puntare all’uscita di scena politica di Vladimir Putin. In quella frase c’è piuttosto la storia politica e personale di Joe Biden. Il suo carattere. Le sue insofferenze e debolezze.

“Ho espresso il mio oltraggio morale nei confronti del comportamento di Putin”, ha spiegato il presidente americano per cercare di attenuare l’effetto delle sue parole. In precedenza, la Casa Bianca aveva scelto un’altra interpretazione. Il presidente avrebbe sostenuto “che Putin non può esercitare il suo potere sugli Stati vicini”. Si tratta, ovviamente, di tentativi goffi di giustificare una presa di posizione difficilmente giustificabile. Non a caso i governi di Londra e Parigi hanno subito preso le distanze dall’affermazione di Biden. In tempi di guerra bisogna essere prudenti, soppesare le parole, esercitare moderazione. Tutto quello che Biden non ha fatto, chiedendo che Putin sia cacciato dal Cremlino.

Non è comunque la prima volta che, durante questa crisi, il presidente Usa si lascia andare ad affermazioni non esattamente in linea con le posizioni ufficiali del suo governo. In gennaio, quindi prima che partisse l’invasione russa, Biden aveva messo in guardia contro l’ammassamento di truppe russe al confine ucraino, lasciando comunque intendere che “un’incursione limitata” dei militari di Mosca non avrebbe provocato una risposta internazionale particolarmente forte. Di fronte allo sconcerto di ucraini e alleati europei, la portavoce della Casa Bianca aveva dovuto intervenire spiegando che “qualsiasi forma di attraversamento del confine da parte delle truppe russe” sarebbe stata interpretata a Washington come un’invasione. Stesso sconcerto, tra gli esperti di politica internazionale, avevano suscitato altre affermazioni di Biden. Per esempio questa: “Dipende da che parte del letto si sveglia la mattina”, per spiegare la volubilità e il potere autocratico delle scelte di Putin.

Il fatto è che Biden, che per decenni al Senato si è occupato di politica estera e ha intessuto un’ampia rete di relazioni internazionali, ama presentarsi come un average Joe, un americano medio che dice quello che pensa, con parole semplici, senza censurarsi, senza farsi troppi problemi sulle possibili conseguenze. Poco importa che questa sia un’attitudine vera del suo carattere o al contrario una posa attentamente studiata. Questo è ciò che Biden ha fatto per decenni, amplificando la sua immagine di figlio di un venditore di auto di Scranton, Pennsylvania, poi di padre che per anni ha fatto il pendolare tra Washington e la casa di famiglia nel Delaware. Biden si percepisce e si presenta come espressione di un’America schietta, genuina, che privilegia la verità sulla diplomazia, insofferente nei confronti dei tatticismi della politica, portata a distinguere in modo chiaro, quasi istintivo, il bene dal male. Si tratta, ovviamente, di una costruzione retorica e ideologica che fa parte della storia politica americana, in particolare della tradizione del populismo democratico, cui Biden si ispira e che è diventata una cifra essenziale della sua “persona” politica.

Quest’attitudine ha condotto, negli anni, ad alcuni celebri svarioni, a quelle gaffe che sono diventate parte essenziale della storia di Joe Biden. In molti per esempio ricordano che, da vicepresidente di Barack Obama, fu costretto a telefonare ai leader di Turchia, Emirati Arabi e Arabia Saudita dopo aver sostenuto, in un’intervista, che quegli stessi leader aiutavano i gruppi dell’estremismo islamico in Siria. Altra celebre gaffe, forse la più celebre, è quella relativa ai matrimoni omosessuali. In un’intervista, Biden disse di essere a favore dei matrimoni omosessuali. Non era la posizione ufficiale dell’amministrazione Obama, che sino ad allora aveva offerto appoggio alle unioni civili. L’affermazione di Biden prese di contropiede Obama, fino a costringerlo a dichiarare che sì, anche il presidente degli Stati Uniti sosteneva i matrimoni tra persone dello stesso sesso. Una dichiarazione estemporanea, fatta dal vicepresidente nel corso di un’intervista a ruota libera, condusse quindi a un cambiamento di politica dell’amministrazione americana su una delle questioni più delicate in materia di diritti civili.

Questa stessa attitudine franca, poco controllata e riguardosa, è comunque ciò che ha permesso a Biden di combattere ad armi pari con Donald Trump, un altro politico poco attento a forme ed etichette. Dal “dacci un taglio” rivolto all’allora presidente repubblicano durante un confronto tv, sino alla sfida a suon di pugni cui l’attuale inquilino della Casa Bianca invitò il suo predecessore, tutta la comunicazione scelta da Biden in campagna elettorale ha cercato di enfatizzare l’esasperazione morale e personale, ancor prima che politica ed ideologica, nei confronti di Donald Trump. Alla fine la strategia ha avuto successo. Se Hillary Clinton aveva scelto con il rivale repubblicano la strada della competenza e dei programmi, con i risultati che ben conosciamo, Biden non ha avuto paura a usare i toni dell’indignazione, dell’insofferenza, della repulsione. Uno dei pilastri della sua campagna elettorale del 2020 è stato proprio questo: contrapporre un’America “normale”, decente e dotata di buon senso a politiche incendiarie, che dividono l’America. Il messaggio è per l’appunto risultato vincente. “Average Joe” ha battuto il tycoon sfrenato e sprezzante.

La storia si ripete in parte oggi con Vladimir Putin. Biden non si fa troppi problemi a dire come la pensa e usa con Putin appellativi forti e inconsueti per la diplomazia internazionale. Il leader russo è stato definito da Biden, nell’ordine: un killer, un delinquente, un dittatore omicida, un criminale di guerra. Incontrando i rifugiati ucraini proprio a Varsavia, prima del suo discorso, il presidente americano aveva aggiunto un nuovo insulto: “Putin è un macellaio”. Sono espressioni in cui convergono un radicato disprezzo politico e personale, ma anche il risentimento per quanto avvenuto nel 2016. Biden crede infatti che Putin abbia giocato un ruolo importante nella vittoria presidenziale di Trump, orientando attraverso fughe di notizie e infiltrazioni hacker il risultato delle elezioni. Quel legame tra Putin e Trump, a giudizio di Biden, sarebbe stato confermato dalle espressioni di stima che l’ex presidente repubblicano ha espresso per il leader del Cremlino all’inizio dell’invasione. Senza contare che, un paio di giorni fa, ancora Trump implorava Putin di far filtrare informazioni su presunti affari illeciti della famiglia Biden, in particolare il figlio Hunter, con l’ex sindaco di Mosca.

Nell’avversione di Biden per Putin si assommano quindi questi diversi elementi: il rifiuto delle politiche autocratiche del leader russo, il legame che Putin stesso avrebbe coltivato con la destra eversiva trumpiana, che Biden ritiene una minaccia per la democrazia americana. E dunque, come già nel passato, il presidente Usa dice quello che pensa, provocando contraccolpi internazionali, costringendo la sua stessa amministrazione ad arrampicarsi sugli specchi. “In nome di dio, quest’uomo non può restare al potere” è, in fondo, un puro momento Biden: un’espressione incontrollata, “dal sen fuggita”, con cui Biden rivendica se stesso e la sua storia, ma che nella situazione attuale rischia di esacerbare gli animi e chiude ulteriormente alle possibilità della diplomazia.

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