Cinema

Full time – Al cento per cento, la corsa contro il tempo di Julie lavoratrice precaria nell’era di Macron

Il film di Eric Gravel è un movimentato e appassionato crogiuolo di diversi frammenti filmici intravisti fino ad oggi sull’evo globalizzato del mondo del lavoro e dell’esistenza frenetica

di Davide Turrini

Julie corre. Ogni mattina quando sorge il sole una donna delle pulizie di mezza età, single, con due bimbi a carico, che abita in un lontano sobborgo parigino, sa che dovrà correre come una pazza per salire su infiniti treni, bus e metrò per raggiungere il posto di lavoro in centro a Parigi altrimenti verrà licenziata. Se poi ci si mette una lunga trafila di scioperi che paralizza la capitale, l’anziana vicina di casa che non può più tenere i bambini, e la possibilità di un colloquio che la elevi professionalmente in una grande azienda, la situazione da complessa diventa pressoché ingestibile. Full time – Al cento per cento (ma che traduzione dall’originale è?) di Eric Gravel – nelle sale italiane dal 31 marzo grazie ad I Wonder – è un movimentato e appassionato crogiuolo di diversi frammenti filmici intravisti fino ad oggi sull’evo globalizzato del mondo del lavoro e dell’esistenza frenetica, con una geolocalizzazione macroniana.

Da un lato il film propone il dinamismo performativo dell’attrice (Laura Calamy) e la plasticità registica di Gravel che ne segue le saettanti tracce per raggiungere il/ e sul/ luogo di lavoro. Dall’altro, quasi in sottotesto, c’è il macrotema del lavoro precario, instabile, determinatissimo, dove ogni secondo è buono per rischiare il posto, la sussistenza, la vita. Così nel primo campo semantico troviamo riferimenti stilistici al Tykwer di Lola Corre, ma senza quella programmaticità da videogame estetizzante; nel secondo l’insensatezza e la disumanità del tempo del lavoro alla Sorry we missed you (ma senza il malinconico romanticismo working class di Loach) e il realistico sfioramento del limite dell’umana sopportazione del carico di lavoro di Sole Cuore Amore (ma senza la sofferta tragicità di Vicari). Ed è forse questo il limite un po’ sbrigativo e apolitico del film di Gravel (anche sceneggiatore): rendere Laura una sorta di “americana” eroina, e non di “europea” antieroina, elevandone un individualismo anni ’80 che tutto risolve e ricuce (per sé). Comunque nell’orchestrazione del meccanismo di suspense, e quasi di thriller, il film funziona da dio e la reazione dello spettatore rispetto alla corsa e agli ostacoli che si parano sul terreno della protagonista è quello di una incontrollabile e sana agitazione. Sul lato più profondo, meno stilistico, del significato politico quei fumi in lontananza degli scioperi che bloccano la città, guardati da Laura con un certo laconico distacco, certificano inevitabilmente come la criticità dello sfruttamento lavorativo, incrociato ad una naturale e ricercata realizzazione professionale, non trovi anche solo metaforicamente all’orizzonte una salvifica collettivizzazione della lotta. Calamy è un tornado di tenacia e tenerezza raro, premiata infatti all’ultima Venezia come miglior attrice nella sezione Orizzonti.

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