“Mamma, ho preso cinque del compito di mate”. “Accidenti, un’altra insufficienza. E gli altri come sono andati?”. Microdialoghi di questo tenore e natura sono così frequenti da essere diventati parte del commentario standard delle prestazioni filiali, e non solo in ambito scolastico, come se l’esito infausto di una prova di verifica fosse meno grave quando è annegato in un contesto ancora più negativo. La valutazione dell’impegno e dell’applicazione passa in secondo piano, la preoccupazione principale è la minimizzazione del danno, meno grave se condiviso con gli altri, un prossimo indistinto buono per giustificare il fallimento personale e lenire il bruciore dello scotto.

Così è la scuola d’oggi, così sono i rapporti con le famiglie, le relazioni con e fra gli allievi, le regole non scritte della vita di una comunità che è tale quasi solo più per la comunanza di spazi e burocrazia. Da molto tempo la cooperazione – atteggiamento fondante una comunità che deve educare e insegnare – ha lasciato il posto a una competizione senza scopo, rappresentata ora da voti, ora da giudizi ogni volta più ridicoli. Anche a scuola, come nel resto del paese, ognuno per sé: docenti, allievi, dirigenza, ognuno così attento a tutelare le proprie prerogative e a negare collaborazione e condivisione se comportano il mettersi in gioco per davvero.

La scuola non è un’isola nel mare della società, inevitabilmente ne subisce gli influssi e ne assorbe pulsioni e tendenze, tuttavia non può perdere quel carattere di forte indipendenza che la rende un “porto sicuro” per lo sviluppo di capacità, attitudini e saperi che tornano alla società sotto forma di pensiero critico, di desiderio di contribuire allo sviluppo sociale ed economico. Questa è anche la ragione per la quale le attività di collegamento col mondo del lavoro non possono trasformarsi in tirocini gratuiti, anche se fossero svolti in condizioni finalmente civili e rispettose delle giovani generazioni.

Se la scuola non mantiene la titolarità, la responsabilità e la progettualità di tutte le attività che progetta per dare il massimo ai giovani, finisce inevitabilmente per consegnarsi nelle mani di soggetti terzi che ne snaturano il carattere e sviliscono l’attività di formazione. Tante, troppe volte si è assistito a tentativi maldestri di trasformare la scuola in luogo di addestramento della forza lavoro con le caratteristiche ritenute in quel momento necessarie dal padronato, per poi scoprire che, al dunque, non sapeva più che farsene di lavoratori addestrati, perché li avrebbe voluti formati, cioè in grado di recepire l’addestramento specifico sul posto di lavoro perché capaci di leggere, scrivere, fare di conto, interpretare un manuale, formulare concetti logici e di senso compiuto, attenti ad appropriarsi delle novità prodotte da un mondo in trasformazione vorticosa, dunque versatili.

Se un rapporto fra la scuola “dentro le mura” e il “mondo di fuori” va stabilito per dare completezza e senso al percorso formativo di ogni studente, è nell’ambito della cooperazione fra l’istituzione scolastica e l’operatore economico che va ricercata la saldatura e la costruzione di attività davvero utili per la formazione delle giovani generazioni. Non è quasi mai così, la scuola è spesso poco attrezzata per realizzare queste politiche, priva com’è di figure proprie per organizzare attività a valenza complessa perché coinvolgono soggetti di varia natura e caratteristiche. Così i tirocini diventano come i voti/giudizi: specchi deformanti.

“Nonno, ho tanti adeguato, solo due intermedio e nessun base. Hai visto come sono stata brava?”, cinguetta la piccola nipotina che spera nel regalino in danaro per la bella pagella. Come si fa a costringere bambini della scuola primaria a parlare (e pensare) così? Eppure accade, anche i bimbetti più vispi sono sempre più lontani dall’idea che la valutazione del loro operato possa essere fatta di parole comprensibili, che sappiano raccontare le persone che sono nei rapporti coi compagni, nella loro capacità di lavorare insieme, nell’attitudine a prendersi cura di chi ha qualche difficoltà in più, nell’essere consapevoli del percorso che stanno compiendo e di come lo stanno interpretando, di come sono cooperativi con gli altri e di come competono con se stessi per dare il meglio che possono.

Questa “degenerazione educativa” è solo un aspetto della sempre più diffusa sciatteria con cui le istituzioni pubbliche trattano i cittadini: in nome del Covid l’appuntamento con la banca che vive anche grazie ai tuoi risparmi diventa una questione di stato; accedere allo sportello dell’anagrafe è peggio che entrare a Fort Knox, i tempi delle pratiche si dilatano senza alcuna ragione apparente; gli orari degli uffici si contraggono con la stessa inspiegabile arbitrarietà. Nessuno è chiamato a rispondere di nulla ad eccezione degli ultimi, apostrofati con ogni titolo spregiativo da un mondo che non ha decenza e vergogna, soprattutto che ha smarrito del tutto la necessità di rendere conto.

Già, perché nessuno chiama mai politici, giornalisti, rappresentanti delle istituzioni economiche, dirigenza a farlo e a sopportare le conseguenze dei fallimenti e delle cattive conduzioni di cui sono protagonisti. La sciatteria a senso unico, quella che produce leggi e regolamenti che necessitano di interventi specialistici per l’interpretazione, gerghi professionali incomprensibili al resto del mondo esibiti con disprezzo verso chi non li capisce, insieme a tutto l’armamentario di pose privilegi e comportamenti studiati per mettere in difficoltà chi sta sotto. Il contrario della cittadinanza attiva, la sostanza della democrazia.

Ecco perché il lavoro di ri-costruzione è lungo, doloroso e tormentato: mettere in piedi una struttura sociale moderna, dotata di valori, obiettivi, strategie e responsabilità comporta tanto lavoro con le persone, prima di tutto quelle che debbono poi realizzare a cascata quel cambiamento di rotta che, nella scuola e fuori, riporti la cooperazione al centro dell’agire sociale e la competizione all’unica forma che fa bene agli individui, quella con se stessi. Per migliorarci, migliorare le nostre vite ed essere in pace col mondo. Mica facile, ma a cosa serve la buona politica sennò?

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