In questi terribili giorni, violentati da un feroce dittatore, che ha riportato indietro di un secolo le lancette della Storia, sembra essere rinato nel nostro Paese un forse mai sopito spirito belligerante da “armiamoci e partite”. Tutti (quasi tutti a dire il vero) sembrano essere concordi nel volere fermare la guerra, ma allo stesso tempo si parla di inviare armi e si spendono elogi nei confronti del popolo ucraino, che peraltro sta morendo sotto i colpi di altre armi.

Sono pienamente conscio, che la situazione è complessa e nessuna via di uscita è facile o indolore, ma sarebbe davvero stato impossibile tentare la via della non violenza? Proviamo a immaginare i militari russi che entrano con i loro mezzi e incontrano una popolazione che non si oppone, che li lascia passare, come se fosse normale. Quanto depotenzierebbe la retorica putiniana, un atteggiamento simile? E come si sentirebbero i giovani militari dell’Armata rossa, sbattuti a combattere una guerra, a cui molto probabilmente non credono affatto? Come si comporterebbero di fronte a donne, uomini e bambini che li guarderebbero con sguardo pacifico, che non vuole dire paura, ma, al contrario, coraggio. Molto coraggio, perché la pace richiede molto più coraggio.

Un atteggiamento non violento avrebbe anche il potere di smontare immediatamente ogni speculazione politica di bassa Lega, interna ai vari Paesi, che vediamo giocare spesso in modo ambiguo con l’aggressore. A questo punto non ci sarebbe più nessuna possibilità di scelta, nessun cavillo su cui speculare. E poi? Come governare su una popolazione disubbidiente, che si rifiuta di riconoscere un’autorità straniera, ma lo fa con mezzi pacifici, civili. Puoi controllare un territorio con le armi, non le coscienze della gente. Alla lunga l’invasore si sfianca, si indebolisce.

Non ci sarebbero allora morti e violenze? Forse no, ma certamente molto meno. Un tale atteggiamento metterebbe ogni persona di fronte alla propria coscienza. Lo stato di guerra legittima ogni atto, deresponsabilizza l’individuo, lo rende un esecutore di ordini venuti da lontano. È la banalità del male. Ma di fronte a uno sguardo sei solo, vedi il viso dell’altro, vedi un essere umano, non per forza un nemico.

Ricordiamo quello splendido passaggio de Il sergente nella neve in cui si descrive l’incontro casuale tra un soldato italiano e alcuni militari sovietici, nel pieno della Seconda Guerra Mondiale:

Corro e busso alla porta di un’isba (tipica abitazione rurale russa, ndr). Entro. Vi sono dei soldati russi, là. Dei prigionieri? No. Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo con il cucchiaio di legno da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi a mezz’aria.

“Mnié khocetsia iestj” (“datemi da mangiare”) – dico.

Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste più. I soldati russi mi guardano. Nessuno fiata. C’è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d’ogni mia boccata.

“Spaziba” (“grazie”) – dico quando ho finito.

E la donna prende dalle mie mani il piatto vuoto.

“Pasausta” (“prego”) – mi risponde con semplicità.

I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi. Nel vano dell’ingresso vi sono delle arnie. La donna che mi ha dato la minestra, è venuta con me per aprirmi la porta e io le chiedo a gesti di darmi un favo di miele per i miei compagni. La donna mi dà il favo e io esco.

Un’utopia? Forse, ma Mario Rigoni Stern l’ha vissuta e spesso l’utopista è quello che vede il futuro prima degli altri.

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