Non esistono biglietti, tariffe e prenotazioni. La fuga dall’Ucraina è ormai una corsa disperata al primo convoglio che parte. Chi scappa non controlla nemmeno quale sia la destinazione: l’importante è trovare un posto (in piedi, naturalmente, e pigiati come sardine) su qualsiasi treno diretto a ovest e da lì sperare in qualche modo di raggiungere il confine. Un’odissea che dura giorni per chi sceglie le rotaie e anche una settimana per chi ha lasciato le regioni orientali e vuole raggiungere l’Italia.

Da Kiev una delle soluzioni meno trafficate è la rotta verso la Moldova ma c’è un unico convoglio in partenza ogni quarantotto ore. Definirlo affollato è un eufemismo. Per entrare servono i muscoli e chi ha le braccia più robuste sale per primo ma c’è anche chi dà la precedenza ai bambini e agli anziani. Dignità e compostezza sono diventate le caratteristiche principali di questi poveri disgraziati in fuga. Ci si innervosisce un po’ quando i soliti furbetti provano a saltare la coda ma sono le donne, come sempre, ad intervenire e a calmare i mariti. L’Ucraina matriarcale già prima della guerra è ancor di più oggi in mano a queste guerriere della quotidianità: che non piangono, non urlano, non gridano al mondo la loro frustrazione ma soffrono in silenzio ed accudiscono i figli con il solito amore.

Si parte. Con noi viaggia Misha, un ragazzino di dodici anni. Ce lo ha affidato il papà alla stazione: “Deve arrivare a ovest. Lì lo aspetterà la mamma e lo porterà in Italia. E’ maturo e responsabile ma per me è ancora il mio bambino: dategli un’occhiata…”. Lo scompartimento conta una settantina di posti a sedere ma saremo almeno duecento. Dalla Capitale scivoliamo verso la campagna in un silenzio composto, rotto talvolta dal pianto dei bambini. La vecchina al nostro fianco è stata previdente e si è portata la seggiolina da casa. I più piccoli si sdraiano a terra. Uno di loro, alla vista di un carro armato, si dimena divertito. Ma non è un gioco, purtroppo. C’è chi vorrebbe la toilette ma arrivarci è impossibile. Saranno dieci ore senza il bagno, un sorso d’acqua e un secondo per appoggiare la schiena ma è l’ultimo dei problemi nella disgrazia che sta sconvolgendo il Paese.

Scivoliamo verso le terre austroungariche e l’Ucraina più autentica quando un sibilo scuote la relativa tranquillità del treno. E’ l’eco di un bombardamento non lontano dal convoglio. Qualcuno prega ad alta voce, altri in silenzio, molti chiudono gli occhi. Siamo salvi. A Vinnytsia ci si ferma per far salire altri disperati ma proprio in quel momento scatta l’allarme aereo. Siamo scoperti e maggiormente in pericolo: nessuno fiata per qualche minuto ma anche stavolta finisce bene. Cala il buio, intanto, e nel vagone si fa notte. Per le successive sei ore viaggiamo in mezzo alle tenebre: manca l’elettricità, e oltretutto potremmo facilmente diventare un bersaglio mobile. Qualcuno ha la torcia, altri si fanno luce con il proprio telefono ma è fondamentale preservarne la batteria. Il cibo per fortuna non manca ed il viaggio della speranza diventa anche il modo per condividere quel poco che si è riusciti a portare da casa.

Cambiamo treno. Fino al confine moldavo viaggiamo con una locomotiva a carbone: sembra la prima guerra mondiale, non un conflitto del terzo millennio. A Mohyliv Podilsky l’arrivo è a mezzanotte. Nevica. Percorriamo a piedi i due chilometri che separano la stazione dal confine. Non c’è gente: i rifugiati preferiscono Polonia e Romania, non questo piccolo Paese ex sovietico con una componente russofona e per questo preoccupato dalla deriva imperialista di Putin. L’ultimo avamposto ucraino ci accoglie alla spicciolata: un rapido timbro sul passaporto e siamo dall’altra parte. La polizia moldava ci saluta in italiano: “Benvenuti in Europa”. Le nonne del posto ci aspettano con le torte e il tè caldo e soprattutto con tanti sorrisi per gli amici in fuga dalla guerra. L’invasione russa, se non altro, ha creato una nuova fratellanza fra i popoli.

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