Le vicende del Covid hanno fatto passare in secondo piano molti altri temi importanti, fra cui quello degli immigrati. Sembra non se ne interessi più nemmeno il loro nemico numero uno, quel Matteo Salvini che definì “giovani palestrati” i disperati che attendevano da giorni sulla “Sea Watch” di poter sbarcare sulle coste italiane. E lo fece pur conoscendo come tutti le sofferenze patite e le violenze subite da uomini e donne nei campi di concentramento libici. Per quel poco che è dato sapere dalla nostra stampa – attenta solo ai problemi del giorno – sembra che gli sbarchi siano diminuiti. Ma sembra anche che i politici abbiano deciso di non occuparsi più del problema, magari in attesa di altre foto agghiaccianti come quello del bimbo morto sulla riva del mare.

Come capo ufficio stampa del ministro del Commercio Estero, nei primi anni Ottanta, ho viaggiato un po’ per l’Africa e in particolare ho passato dieci giorni in Nigeria, visitando – oltre alla spaventosa capitale Lagos – diverse zone al Nord e al Sud (il Biafra) del Paese. Gli orrori che ho visto (a partire dai mercati in cui si vendono topi e pipistrelli per arrivare alla brutalità della Polizia verso i poverissimi “cittadini”, cui chiunque può tagliare le mani se colti a rubare) mi hanno fatto capire quanto sia falsa e ingiusta la distinzione fra emigranti politici ed economici: come se veder morire di fame i propri figli non fosse una ragione sufficiente per voler emigrare.

Ma ammesso che gli sbarchi siano diminuiti, resta sempre il problema dei tantissimi immigrati “irregolari” – oltre 600 mila secondo stime attendibili – fuorusciti nel corso degli anni dal nostro pessimo sistema di accoglienza e “rimasti incastrati” da noi: “una umanità dolente che sopravvive senza diritti né certezze accanto ad autoctoni già ampiamente provati dalla crisi economica, generando tensioni, disagi, talvolta scontri tra ultimi e penultimi non certo inventati dai media”, come scrisse Goffredo Buccini in un toccante articolo sul Corriere della Sera.

Questa realtà non dovrebbe essere ignorata dal governo di un Paese civile: per umanità, ovviamente, ma anche perché l’elevato numero di immigrati che elemosinano, spesso in modo insistente, davanti ai supermercati e ai bar per qualcuno “danno fastidio”, turbano il quieto vivere e la coscienza del nostro benessere economico. E in qualche misura favoriscono anche la deriva “sovranista” e “populista” di tante forze politiche e dei loro elettori. Senza contare il fatto che questi 600mila clandestini si prestano anche come manovalanza per la criminalità e per la prostituzione (passando per la Salaria o le altre “consolari”: è sotto gli occhi di tutti lo spettacolo di tante giovani di colore in attesa di clienti, tutte con le stesse identiche e succinte tenute e dunque con uno o più sfruttatori, purtroppo lasciati “lavorare in pace” dalla nostra Polizia).

Vista la grande difficoltà di rimpatriare questi immigrati nei loro paesi, che li rifiutano, sarebbe giusto identificarli, toglierli dalla clandestinità, concedere un permesso di soggiorno e così permettere loro di cercare un lavoro, almeno fra quelli che gli italiani rifiutano (esempio tipico, i e le badanti). Ma poiché nemmeno trovare questi lavori è sempre facile, si potrebbero tentare due strade coraggiose ed utili.

La prima è quella dei lavori pubblici che non richiedono una specializzazione. L’ipotesi cui penso è quella di un grande progetto di sistemazione del territorio, a partire dal consolidamento degli argini dei fiumi e dal rimboschimento. I miliardi in buona parte sprecati (ormai lo si può dire “a consuntivo”) per il reddito di cittadinanza e per “quota 100” potrebbero essere impiegati per ridurre le sempre più frequenti catastrofi naturali.

Una seconda via da seguire è quella battuta prima dal sindaco di Riace, con le note disavventure, e poi, con attenzione a non violare alcuna regola e con pieno successo, dal suo collega di Montesilvano, che è riuscito, in una cittadina vicino Pescara di 55mila abitanti, ad integrare felicemente oltre 500 immigrati, ospitati in cinque centri di accoglienza e adibiti a lavori socialmente utili, come l’eliminazione delle barriere per i disabili, la sistemazione delle spiagge, la cura dei giardini ed i servizi cimiteriali.

Più in generale, in un paese in cui molte zone, soprattutto di montagna, si vanno spopolando, sarebbe possibile concedere in uso ad immigrati le case disabitate (salvandole dai danni dell’abbandono) e un po’ di terre incolte in cui praticare agricoltura e pastorizia. Senza scomodare le grandi imprese del passato – il New Deal e la Tennessee Valley Authority – e ad un tempo senza accontentarsi della logica dei “lavori a riporto” del nostro dopoguerra, sarebbe un sogno, per una volta, vedere i nostri governanti uscire dal pollaio delle loro risse permanenti e pensare insieme a piccole e grandi imprese che gioverebbero al nostro Paese e a tanti infelici “clandestini della miseria” ?

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