di Claudia De Martino

I Palestinesi dei Territori occupati, e con loro l’Autorità Nazionale Palestinese, hanno apertamente rigettato la logica degli Accordi di Abramo, ovvero il processo di normalizzazione in corso tra Israele e quattro Stati arabi sunniti (Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan). Tuttavia, almeno un partito palestinese d’Israele – l’islamista Ra’am, appartenente al Movimento islamico del Sud, ideologicamente afferente ai Fratelli Musulmani – sembra appoggiare il nuovo corso nelle relazioni arabo-ebraiche.

Infatti, Ra’am è entrato nel nuovo governo di coalizione israeliana formatosi nel maggio 2020 e da allora non ha perso occasione per ribadire la propria fedeltà al Paese, nonostante la controversa decisione di definire lo Stato “ebraico” per costituzione (“Legge sullo stato nazione ebraico”, 2018), declassando di conseguenza l’arabo come lingua ufficiale e dichiarando incostituzionali le commemorazioni della Nakba. Ciononostante, il partito islamista ha deciso di andare avanti per la sua strada, staccarsi dal fronte congiunto dei partiti arabi – la Lista araba unita, stabilmente ancorata all’opposizione – e scommettere sulla possibilità di una prospera coesistenza.

E’ in una recente intervista rilasciata al Washington Institute for Near East Policy (10/2/2022), durante una visita negli Stati Uniti, che il vice-portavoce della Knesset e leader di Ra’am, Mansour Abbas, ha espresso le sue posizioni politiche moderate a largo spettro, dichiarando che non si possa parlare di “apartheid” nel caso di Israele, ammettendo vi siano alcune discriminazioni nei confronti della minoranza araba che vanno affrontate sul terreno del confronto politico e, infine, rivolgendo un invito al dialogo agli ebreo-americani, accreditandosi sulla scena internazionale come una legittima forza israeliana di governo.

A dicembre 2021, a una conferenza ospitata dal Globes Israel Business Conference, Ra’am aveva persino difeso il carattere ebraico dello Stato, sostenendo che “così fosse nato e dovesse restare”, per arrivare al 19 febbraio 2022, quando – primo tra i leader di un partito arabo-israeliano – Manosur Abbas ha ricevuto l’ambasciatore statunitense Tom Nides nella sua abitazione privata nel villaggio di Maghar, nel nord di Israele. Scelte che marcano una forte discontinuità con la linea politica adottata in precedenza da tutti i partiti arabi d’Israele e palestinesi.

Ra’am ha dunque operato uno strappo importante, ma ad oggi tale ribaltamento delle alleanze, che promette di avviare un nuovo corso politico tra minoranza araba e maggioranza ebraica in Israele, sembra incontrare il sostegno dell’opinione pubblica, incassando il supporto di circa il 45% degli arabi d’Israele, nonostante l’ostilità degli altri partiti arabi, ivi incluso il Ramo settentrionale dello stesso Movimento islamico guidato dal leader radicale Raed Salah, appena scarcerato. In sintesi, la svolta moderata di Ra’am non fa l’unanimità nemmeno nel campo islamista, ma sembra invece incontrare il favore di un fronte eterogeneo, composto dai partiti ebraici di governo, i Palestinesi della Galilea, i beduini del Negev e gli Stati Uniti.

Il motivo di questo consenso multiforme è la capacità di Ra’am di navigare con successo la politica israeliana, puntando sul futuro e sullo sviluppo autonomo della comunità araba d’Israele indipendentemente dalle oscillazioni politiche. Il partito islamista può vantare alcuni risultati concreti: la vittoria della coalizione di governo, che non si sarebbe formata senza la sua partecipazione (con la conseguente fuoriuscita di Netanyahu), l’approvazione di un nuovo budget l’ottobre scorso (2021), dopo tre anni che il Paese in costante emergenza elettorale ne era rimasto privo, e la lealtà nei confronti del governo, dimostrata dall’estrema cautela con cui il partito ha affrontato l’ultima guerra tra Israele e Hamas nel maggio 2020.

Tuttavia, il vero successo di Ra’am, che spiega l’appoggio popolare di cui gode, è frutto del suo impegno tangibile nel migliorare le condizioni di vita degli arabo-israeliani, incrementando i fondi assegnati al cosiddetto “settore arabo” sia per sviluppare le infrastrutture che per stemperare la microcriminalità che lo attanaglia (cento omicidi all’anno). Ra’am non solo è riuscito ad assicurare al comparto arabo un budget quinquennale (pari a 8.1 miliardi di euro per il quinquennio 2022-2026), ben più generoso di quello assegnatoli da Netanyahu nel 2015 (4.1 miliardi 2015-2020), ma anche a devolvere la maggioranza dei fondi direttamente alle municipalità arabe per implementare autonomamente servizi e infrastrutture sui loro territori.

Inoltre, il partito islamista si è anche assicurato una somma aggiuntiva pari a 661 milioni di euro dal Ministero della Pubblica sicurezza da investire nella lotta alla criminalità, ottenuto la costruzione di una nuova città beduina e la legalizzazione di almeno tre villaggi (sui 14) abusivi nel Negev. Un risultato pragmatico applaudito come “un avanzamento storico” dal Ministero dell’uguaglianza sociale, che ha ringraziato pubblicamente Abbas per la collaborazione.

La linea pragmatica adottata da Ra’am rischia di creare al partito molti nuovi nemici – tra cui i partiti ebraici ortodossi, suoi tradizionali alleati nella difesa dei provvedimenti religiosi sui divieti alimentari e di programmi di assistenza sociale alle famiglie numerose e ai bambini, infuriati dalla scelta di Abbas di esprimere voto favorevole sulla coercizione militare dei giovani ultraortodossi. Ma anche gli altri partiti arabi, tra cui Ta’al, e il fronte nord dello stesso movimento islamista, che ritengono che Ra’am stia svendendo – l’uno – l’identità nazionale palestinese e – l’altro – la difesa della santità della moschea di al-Aqsa dalle infiltrazioni di coloni.

Tuttavia, il partito islamico tiene duro e presenta la sua strategia non solo come pagante nel breve periodo, ma come una politica in linea con le aspettative degli elettori arabo-israeliani, che in percentuali ancora deboli ma costantemente crescenti dichiarano di avere più fiducia nel governo (dal 14% del 2020 al 28% del 2021) e nel Parlamento (passata in un anno dal 17.5 al 25%, Idi), scommettendo sulla possibilità di un’integrazione e un ruolo crescente nel Paese in cui vivono, che pure continua a definirsi solo ebraico.

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