Niente prepara alla vittoria come il più tetro fallimento. Perché successo e disfatta sono concetti annodati insieme, facce non sempre distinguibili della stessa medaglia. La presenza dell’uno annuncia l’imminente arrivo dell’altro, come in un gioco che non ammette spazi vuoti. Perché non c’è un metro univoco per giudicare la propria esistenza. Qualcuno pensa che il presente sia stato generato dalle proprie affermazioni. Altri dai propri crolli. Ma è difficile capire se il proprio destino sia stato più il frutto di ciò che si è realizzato o di quello che non si è costruito. È un’idea essenzialmente legata a quella di sliding door, di porta girevole. Basta un secondo per cambiare una storia, figurarsi una vita. Un concetto col quale Jorginho ha preso dimestichezza anni fa. In un’altra vita. In un altro mondo. Nel vero senso della parola.

La sua è la storia di un ragazzino cresciuto poggiando su delle radici intricate. È brasiliano ma anche italiano. Perché è nato Imbituba, nello stato di Santa Catarina. Ma si porta dietro echi lontani, frammenti di lingua, usanze e costumi remoti e misteriosi. Sono voci che parlano veneto, che raccontano dell’Italia. Nel 1896 il suo trisavolo aveva chiuso il suo mondo in una valigia ed era andato via. Lontano da Vicenza, lontano da quel paesino chiamato Santa Caterina. Una santa nel destino, un nume tutelare che offre una seconda possibilità. Jorginho cresce tenendo insieme mondi diversi senza essere eroe per nessuno di due. Il suo destino si compie quando ha appena 12 anni. Si presenta a un provino per entrare nelle giovanili del Palmeiras, una squadra che era stata fondata con il nome di “Palestra Italia”. Il ragazzo si cambia, palleggia, gioca, passa, detta i tempi. Poi si presenta davanti all’allenatore. La risposta dell’uomo gli spezza il fiato. Non è ammesso in squadra. Arrivederci, senza neanche troppi grazie.

In quel momento nel cielo del ragazzo si accende una stella fortunata. Il fallimento inizia a degradare fino a diventare opportunità. D’altra parte lo diceva anche il Dizionario degli errori di Flaiano: “Un giovane va incontro alla vita: cioè è la vita che da dietro lo spinge”. Quella squadra in maglia verde diventa fantasma del passato, matrimonio né nato né consumato. È stato così per anni. Almeno fino a oggi. Perché questo pomeriggio (calcio di inizio alle 17.30 italiane), Jorginho si ritroverà davanti al Palmeiras. Un’altra volta. Solo che in palio non c’è una contratto, ma il Mondiale per club. Un incrocio da film a stelle e strisce, anche se il centrocampista del Chelsea giura di non cercare rivincite. “Il calcio è così – ha detto ieri – 18 anni più tardi mi ritrovo contro il Palmeiras a giocarmi il titolo di campione del mondo per club. È un qualcosa di folle, anche se spiega alla perfezione la bellezza dei questo sport. Tutto accade per una ragione, forse è stato meglio così”. Il problema delle frasi fatte è che a volte hanno anche ragione. Jorginho l’ha capito anni fa, quando ha iniziato a crescere come un albero storto, un personaggio che devia dalla tradizionale narrazione del piccolo fenomeno sudamericano. Il calcio non è un anestetico per sfuggire ai pomeriggi che sanno di miseria. Per lui è un dono di famiglia. Sua mamma Maria Teresa lavorava come collaboratrice domestica. Ma faceva anche la calciatrice. E travasa nel figlio tutte le sue conoscenze. Quando finiva di lavorare prendeva Jorginho e lo portava sulla spiaggia. Ogni giorno. Lo faceva giocare sulla sabbia. Gli insegnava la stabilità, affilava la sua tecnica. Tanto che il bambino ha iniziato a camminare e a calciare insieme. L’attitudine diventa mentalità.

“Se gioco a pallone è grazie a lei”, dirà più avanti Jorginho. Ed è vero. Il divorzio dei suoi genitori è un trauma che rischia di impiombare la sua anima prima ancora del suo gioco. Invece si trasforma in trampolino. Un anno dopo il Palmeiras un uomo entra nella sua vita. È un manager italiano e lo ha selezionato per una scuola di giovani talenti che si trova a Guabiruba. A quasi duecento chilometri da casa. Sembra El Dorado. È un incubo. La doccia è sempre fredda. Il mangiare è sempre lo stesso. L’energia elettrica è sempre capricciosa. Solo che il peggio doveva ancora arrivare. L’agente si trasforma in quell’amico “diventato nemico che mi ruba la voce” cantato da Dalla in La Signora. Promette benessere. Ma più a sé stesso che agli altri. Jorginho viene messo su un aereo e spedito a Verona. Il suo manager intasca 30mila euro. Ma alle giovanili del Verona Jorginho ne guadagna 20 (senza mila) a settimana. Bastano per comprare sapone e qualche ricarica del telefonino. Il ragazzo ricaccia indietro le lacrime e si attacca al telefono. Vuole tornare in Brasile. La sua famiglia fa muro. Devi restare lì, gli dicono. Devi affermarti in Italia, spiegano. A Verona trova Rafael. Fa il portiere titolare. E diventa il suo fratello maggiore. Ma è una corsa contro il tempo. Jorginho si fissa su un pensiero. Lui intende lasciar perdere. Perché non ne può più. Il Verona vuole fargli firmare un contratto professionistico, ma quell’uomo d’affari era diventato il suo tutore fino all’età di 18 anni. E ogni volta si metteva il mezzo. Il club lo aspetta, lo aiuta. Poi appena diventato maggiorenne lo accoglie a braccia aperte. È l’inizio di una storia tutta nuova, di una scalata progressiva. La gioia non è più elemento residuale ma fondamentale. Sambonifacese, Verona, Napoli e Chelsea come tappe per un cammino che lo hanno portato fino al tetto d’Europa. Con la maglia blu dei londinesi. Con quella azzurra dell’Italia. Questione di sfumature che dipingono un quadro a tinte brillanti. Fino a oggi, quando per potersi mettere il mondo in tasca Jorghinho dovrà battere chi lo aveva scartato. Non ricordare con rabbia, cantavano i fratelli Gallagher. Una canzone che il ragazzo di Imbituba ha elevato a sistema.

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