Da qualche giorno, una lista di intellettuali italiani raccoglie firme contro l’uso dello schwa. Avrei scritto “intellettuali italianə” perché è importante specificare che non si tratta solo di uomini ma anche di studiose, poetesse, insegnanti, però non vorrei mai urtarne la sensibilità. Maschile sovraesteso sia. Lo schwa è percepito come una minaccia all’integrità della lingua italiana, non come uno strumento politico, soprattutto da parte di chi non sente il bisogno di vedersi (e sentirsi) incluso perché lo è già sempre, automaticamente. Reagire chiamando in causa il rigore della lingua – il maschile, in italiano, significa già che ci si rivolge a tutti – vuol dire non aver compreso l’esigenza iniziale, non star ascoltando chi pone la domanda a gran voce.

Lo schwa non è la risposta definitiva a questa domanda di inclusione. È un esperimento, un tentativo di aprire tutte le porte, per dirla con motivetto sanremese, nell’ottica urgente di ampliare i discorsi, rivolgendosi contemporaneamente a uomini, donne, persone non binarie, in transizione, agender… riassumendo: a tuttə. Proprio perché si tratta di una proposta, e non di un’armata lgbtqia+ che irrompe nelle case italiane in piena notte per vedere chi è che non usa lo schwa nelle mail, non capisco a chi saranno poi consegnate queste firme. Se funzionasse così, personalmente raccoglierei delle firme contro le abbreviazioni “stase” e “tranqui”. Come si fa a impedire che le persone scrivano e parlino come ritengono? Si chiama il 112? E questo vale in ogni caso, non fraintendetemi: chi sono io per obbligare qualcunə a usare lo schwa?

Nella petizione si legge che l’uso dello schwa “potrebbe arrecare seri danni a chi soffre di dislessia e altre patologie neurotipiche”. Non li definirei “seri danni”, ma è chiaro che un nuovo simbolo introduce un ostacolo in più per chi ha difficoltà di lettura. Provando a fare un ragionamento a lungo termine, però, se lo schwa venisse realmente adottato si garantirebbe l’adattamento dei software di lettura per ipovedenti per riconoscerlo e leggerlo correttamente, l’introduzione di un nuovo grafema nei font per l’alta leggibilità e tutto il set di soluzioni da mettere in campo per fare in modo che non complichi la vita a nessunə. Fino a quel momento, questo è un nodo cruciale da sciogliere, come in ogni esperimento che si rispetti.

Dal secondo paragrafo scopro che lo schwa farebbe un torto anche alla tanta fatica con cui si è raggiunto l’uso dei femminili professionali. Qui forse si tratta di malafede, perché mi rifiuto di credere che chiunque abbia letto anche solo mezzo articolo sull’uso dello schwa non abbia capito che non intacca minimamente l’uso del femminile, né tantomeno del maschile. Un uomo medico resta “un medico” e un folto gruppo di uomini ballerini resta “molti ballerini”. Una donna pittrice sarà sempre “una pittrice” e due donne che dirigono l’amministrazione comunale sono “le sindache”. Lo schwa entra in gioco per gruppi diversificati o in cui non conosciamo le identità di chi ne fa parte, ad esempio “alcunə maestrə hanno scioperato”. Siamo reduci da un Jovanotti che in prima serata con il 60% di share annuncia “il grandissimo poeta Mariangela Gualtieri” perché è convinto che non esista il femminile della parola “poeta” e il problema sarebbe lo schwa?

I firmatari proseguono affermando che lo schwa non proviene da una reale esigenza di cambiamento. Per quanto sia interessante questo parallelo tra chi propone l’uso dello schwa e chi inventa nuove lingue per estro letterario – tipo J.R.R. Tolkien o David J Peterson – non è un hobby. Temo che sia un problema di bolle di filtraggio. Ho la sensazione che chi abita fuori dalla bolla cis riesca a carpire delle istanze che altrə non percepiscono per forza di cose. Scorro i nomi in calce alla petizione e mi chiedo: quante di queste persone hanno ascoltato attivistə non-binary parlare di schwa? Quante hanno realmente compreso cosa significhi sentirsi inclusə in un paese in cui lo spazio di visibilità per le storie delle persone trans è solo quello di uno sketch comico? Ecco, io credo che poi si possa rimanere della propria opinione, ma che uno scambio produttivo debba esserci, una predisposizione all’ascolto che lasci per un attimo da parte le formalità linguistiche.

Stamattina mi son ritrovata in homepage un articolo che sbeffeggia la poesia A Silvia di Leopardi scrivendo “Silviə”, riducendo un’istanza sociopolitica a uno sfrenato desiderio di politically correct, che ormai è la definizione per qualunque sforzo di accogliere l’altrə: che sia dal mare, che sia con le parole, che sia sostenendone i diritti. Una volta ci chiamavano zecche, ora siamo politically correct… direi che anche qui si sono azzerati secoli e secoli di storia della buonanima della lingua italiana.

E infine la preoccupazione che più attanaglia gli intellettuali: l’uso vocale dello schwa trasformerebbe l’Italia in una terra di mezzo compresa tra l’Abruzzo, il Lazio meridionale, il nord della Calabria e – mi permetto di aggiungere – la Puglia settentrionale e la Campania, cioè i territori che già utilizzano, in cadenze e dialetti, il suono indicato da “ə”. Facendo un rapido esame dei dati geografici e fonetici, la regione dove mandare in esilio chiunque utilizzi lo schwa è il Molise. Vi aspetto.

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