C’è lì il detective Malone, Sean Connery, che si trascina sul pavimento di casa, pieno di sangue, dopo essere stato crivellato di colpi dai sicari di Al Capone, Robert De Niro. E il boss, l’intoccabile, in quegli stessi secondi, è seduto a teatro e manca poco che pianga come un bambino perché sente cantare Vesti la giubba: “Ridi, pagliaccio, sul tuo amore infranto!”. Ci sono poi delle casalinghe che in uno spot tv degli anni Ottanta quasi Novanta sono vestite come negli anni Cinquanta e mentre puliscono in cucina ballano nelle rispettive cucine: “Mai più il risciacquo, mai, con Ajax passi una volta e vai”. “Igiene sì, fatica no!” concludono garrule e forse (si spera) inconsapevoli, sulle note della Habanera della Carmen. E poi c’è Mika, la popstar: agli inizi della sua carriera racconta a una televisione francese che Grace Kelly, il suo primo successo mondiale, è ispirata a un brano delle Nozze di Figaro, che è un’opera di Mozart, e invece si riferiva a Largo al factotum, che è il momento in cui entra in scena un signore che, sì, si chiama Figaro, ma non si sposa e soprattutto è uno dei personaggi di un’opera di Rossini e di mestiere fa il barbiere (di Siviglia). Insomma: l’opera lirica entra nella testa del pubblico anche quando il pubblico non va a teatro.

Meno spesso succede il contrario, cioè che il grande pubblico entri a teatro per cercare l’opera. Molti tra registi e sovrintendenti cercano la pietra filosofale che riaccenda la sua nazionalpopolarità del recitar cantando, una genialata tutta italiana, a partire dalla lingua di quasi tutte queste storie e che sul palco diventa universale, da San Francisco a Tokyo, da San Pietroburgo a Pechino, dal Golfo Persico a Sydney.

A modo suo Alfonso Antoniozzi – baritono, regista, docente ai conservatori di Cagliari e Cesena – prova ad accendere una scintilla con Vincerò ma anche no (Janus editore, 140 pp, 15 euro), che attraverso un greatest hits delle arie più celebri (con tanto di qr code che rimanda ai video youtube) riporta la lirica a quello che è: una Netflix cantata, una sterminata piattaforma in cui si può trovare la stessa quantità di morti ammazzati, amori disperati, buoni e cattivi, tradimenti e frizzi e lazzi, con l’unica differenza che sopra al palco invece di parlare cantano. Differenza non da poco, si dirà. Ma Antoniozzi non demorde: “Se siete fra quelli convinti che siccome ascoltano Il Volo allora ascoltano la lirica oppure di quelli che quando qualcuno parla delle Nozze di Figaro di Mozart dicono ‘Ah, Figaro qua Figaro là!’”, questo libriccino è per voi”, dunque anche per Mika. “Ho tentato di passare lo straccio sull’opera lirica – sottolinea Antoniozzi in una delle quattro prefazioni dedicate a neofiti, appassionati, colleghi e critici – nella speranza di riuscire a liberarla dai chili di polvere che ne fanno, in una certa percezione collettiva, un’arte museale riservata a pochi e di riportarla a ciò che era ai tempi dei nostri massimi compositori: una forma di spettacolo destinata a tutti”.

Base della potenza divulgativa del “libriccino” di Antoniozzi è senz’altro il linguaggio smitizzante con cui spiega 14 arie tra le più note, conosciute anche da chi non è mai andato a teatro: dal Nessun dorma a Casta diva, da La donna è mobile a Largo al factotum, da Puccini a Verdi, da Rossini a Bizet. E la parola spiega qui ha quasi un significato letterale: il libro scioglie, dispiega appunto, le rigidità di un mondo che è visto (e a volte si autorappresenta) come ingessato dentro un’iconcina uguale uguale a come la vedevano i nonni dei nonni, proveniente da un mondo lontano, inavvicinabile, inaccessibile per incomunicabilità.

E invece da ciascuna aria illustrata dall’autore si capisce come l’opera parli ancora oggi di noi, nessuno escluso: Canio, il Pagliaccio a cui tocca ridere sul palco un attimo dopo aver scoperto che Nedda, l’amore suo, lo tradisce; Figaro, un faccendiere che arrotonda con ben altre attività oltre quella di barbiere; Violetta, detta Mimì in certi ambienti perché hai voglia a fare la bohémienne se poi i proventi da ricamatrice non permettono di mettere insieme pranzo e cena; Rigoletto, che non si sa se è più ributtante dentro o fuori perché partecipa a tutti i peggiori bunga bunga del Duca di Mantova salvo poi andare giù di testa quando la poveretta di turno è la figlia.

Sull’umorismo applicato alla lirica Antoniozzi è allenato: sono (meritoria) opera sua, sul web, le Trame svelate (sottotitolo Storie di gente che canta rimanendoce demmèrda a turno), cioè la traduzione in romanesco degli intrecci delle più grandi opere liriche, che spesso oltre che grandi sono un bell’accatastamento di linee di racconto (chi sviluppa, più inviluppa, chi più sgruppa, più raggruppa, è il caso di dire, già che ci siamo, con Rossini). A questo proposito nel libro Antoniozzi sintetizza così Il Trovatore, un altro capolavoro di Verdi: “L’esempio più perfetto di melodramma che sia mai stato concepito: i luoghi comuni, gli appuntamenti previsti, i cori, la morte, l’amore, il suicidio, le corna, la stregoneria, la bella innamorata, il cattivo di turno, i colpi di scena… Non manca niente all’appello. Trentadue stagioni di Beautiful magistralmente riassunte in tre ore scarse di spettacolo”.

E in certi casi l’ironia diventa autoironia – nei confronti del mondo a cui appartiene – quando Antoniozzi racconta che i librettisti di Giacomo Puccini, Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, andarono dal drammaturgo (parigino) che aveva avuto il genio di inventarsi la trama della Tosca, ma insisteva per far precipitare la protagonista da Castel Sant’Angelo nel Tevere, una proiezione che la poveretta – pur armata di disperazione – non sarebbe riuscita a compiere neanche con l’inerzia di Marcel Jacobs. “Il tragediografo – racconta Antoniozzi – non ne volle sapere della logica geografica stringente, anzi si disse pronto a non concedere i diritti d’uso se Tosca non fosse finita al fiume”.

Lo humour permette ad Antoniozzi di scavalcare nel tempo di un oplà le possibili ritrosie del novizio. Ma, mentre dissacra e smonta, il libro in realtà ricontestualizza. Libiamo ne’ lieti calici: ancora Verdi, ma nella Traviata. Nell’iconografia ad uso del senso comune è usato come coro friccicarello per gli sbicchieramenti, cin cin, bailàmos, enchanté contessa. E invece, ricorda Antoniozzi, per quanto gioioso e elegante all’ascolto sia il valzer verdiano, è la traduzione né più né meno di un due di picche in discoteca o come minimo, più sottilmente, di una catastrofica friendzone. Dice Antoniozzi, in sintesi: quello, Alfredo, il friendzonato, parla d’amore mentre guarda negli occhi Violetta (una “puttana”, da altissima definizione del maestro compositore immortale) e quella – per deontologia professionale – risponde “ma no, tranquilli, io sono di tutti”. “Sul ritmo di zum-pappà, altro che zum-pappà – affonda Antoniozzi – E’ una dichiarazione d’amore che sbatte contro un muro, l’avance di un innamorato che viene respinta, due concezioni diverse della vita che cozzano, due rette parallele destinate apparentemente a non incontrarsi mai”. E il coro? Godiam la tazza e il cantico la notte abbella e il riso: “Non me ne vogliano Verdi e Piave (il librettista, ndr), risponde praticamente ‘paraponzi-ponzi-po’ con parole ovviamente più eleganti, ma vi prego di considerare che l’atmosfera è di fatto quella”.

E’ in questo modo che l’ironia diventa la chiave per far scattare la serratura ed aprire il sipario sulla forza scandalosa di questo teatro cantato fatto passare di solito per oscuro sollazzo per le élite. La donna è mobile, per esempio: qualcuno tra chi legge avrà apprezzato qualche sera fa in prima serata su Rai3 la versione di Damiano Michieletto che ha suscitato il solito stracciamento di vesti di chi vorrebbe l’opera imbullettata a un’epoca ormai persa e dimenticata. Lì dove Giuseppe Verdi la mette, nel Rigoletto, non è altro che una “canzonaccia da casino cantata da uno abbastanza avanti col tasso alcolico alla fine di un matrimonio, immediatamente dopo il taglio della cravatta, al punto che ne esistono versioni goliardicamente sconce”. E’ quasi uno stornello, precisa Antoniozzi. La donna è mobile qual piuma al vento, muta d’accento e di pensiero, canta a squarciagola il Duca di Mantova, che – brillone, in una taverna gestita da un sicario, mentre aspetta i favori sessuali della sorella dell’oste – così “racconta il suo punto di vista sulle donne che al giorno d’oggi si potrebbe riassumere dicendo senza mezzi termini che il Duca è un maschilista, per così dire, demmerda” puntualizza Antoniozzi.

L’allestimento di Michieletto, che viene bene come esempio perché è l’ultimo ad avere avuto la sorte di un pubblico più grande di quello teatrale, può non piacere, ma non perché Rigoletto è meno Rigoletto se ha i jeans e non il cappello con i sonaglietti da giullare. Gli stessi Verdi e Piave non volevano Rigoletto ambientato in quel posto e in quell’epoca: furono costretti a modificare parecchie volte il soggetto e il libretto – compresa ambientazione cronologica e geografica – per superare il giogo della censura. “Raccontava le dissolutezze libertine di un regnante e dunque era improponibile che un’opera teatrale mettesse alla berlina i vizi del potente invece di sottolinearne le virtù”. Il contesto dell’opera fu spostato dalla corte di Francia a un ducato italiano di cento e rotti anni prima, ma l’impatto con l’opinione pubblica fu il medesimo anche perché tra le altre cose nello sviluppo della trama si allude a uno stupro, del potente sulla figlia del buffone. Qualcosa di simile accadde con la Traviata, la cui prima – alla Fenice – fu un disastro. Ci sono varie ricostruzioni, dice Antoniozzi, ma “tendo a credere che gli spettatori, apertosi il sipario e avendo visto gente vestita come loro, a loro contemporanea, raccontare un fatto che poteva comodamente essere successo il giorno precedente due strade più in là, senza il rassicurante filtro di una distante collocazione temporale, insomma avendo colto la feroce critica al perbenismo e ai pregiudizi della società contemporanea che Verdi, complice Dumas, aveva messo in scena, non abbiano gradito quello che vedevano riflesso nello specchio e abbiano gridato alla vergogna e allo scandalo”. Ricorda qualcosa?

Immagine in alto: Instagram/Opera di RomaRigoletto, di Giuseppe Verdi – Edizione 2020 al Circo Massimo – Produzione Teatro dell’Opera di Roma, regia di Damiano Michieletto

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