Il telefono squilla. È una chiamata via Whatsapp di Kabir Haidary, cittadino afghano ed ex dipendente a Camp Arena, la base italiana a Herat, quartier generale del nostro contingente durante la missione Nato in Afghanistan. Di Kabir, per dieci anni al lavoro sia nel reparto tecnico che in mensa fino alla cerimonia dell’ammainabandiera l’8 giugno 2021 alla presenza del Ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, Ilfattoquotidiano.it aveva raccontato la storia all’inizio dell’ottobre scorso. Il Paese del ‘Grande Gioco’ era nel mezzo del caos innescato dal ritorno al potere dei Talebani coinciso con la fuga a gambe levate dell’Occidente. I contatti con lui durante gli ultimi tre mesi sono stati costanti, ma quando, col suo ottimo italiano, inaugura la chiamata dà la buona notizia: “Siamo in attesa del volo per l’Italia, ora aspettiamo la coincidenza dall’aeroporto di Istanbul verso Milano. Il ministero della Difesa italiano ci ha portato via da quell’inferno, ma senza di voi non ce l’avremmo fatta. Grazie amico mio”.

Il lavoro delle autorità politiche e diplomatiche italiane non si è evidentemente fermato al blitz nella seconda metà di agosto e al salvataggio delle centinaia di cittadini afghani che negli ultimi vent’anni hanno collaborato a vari livelli col nostro Paese durante le missioni Enduring Freedom e Resolute Support. Altrettanti si sono nascosti in questi mesi, proteggendo se stessi e le loro famiglie dai regolamenti di conti degli Studenti Coranici nei confronti di chi ha aiutato il “nemico invasore”. Kabir Haidary ha fatto di più: ha venduto la casa e tutto ciò che aveva racimolando i soldi necessari per darsi alla ‘macchia’, portando con sé la moglie incinta, due figlie piccole, i genitori e un fratello. Sono stati mesi drammatici. Fino a quella telefonata di mercoledì scorso a cui se n’è aggiunta una seconda giovedì, ancora più esaltante: “È andato tutto bene. Prima l’ok per il volo dalla Turchia a Milano, quindi l’accoglienza in aeroporto e adesso il personale militare ha trasferito me e tutta la mia famiglia in una sua struttura a Sanremo. Qui passeremo i prossimi dieci giorni per rispettare la quarantena anti-Covid, poi dovremmo essere inviati alla destinazione finale che ancora non ci è stata comunicata. Ovunque sarà per noi va bene, non vedo l’ora di poterci sistemare e iniziare una nuova vita, trovare un lavoro e immaginare un futuro diverso per la mia famiglia, in pace, lontano da quell’inferno. Non saremo mai abbastanza riconoscenti all’Italia”.

Quando è stato pubblicato l’articolo a inizio ottobre, Kabir si trovava ancora in Pakistan, a Peshawar, assieme a moglie, figlie e fratello, mentre i suoi genitori erano ancora a Kabul, ospiti di alcuni parenti. Haidary, attraverso Ilfattoquotidiano.it, si era rivolto direttamente ai vertici del Ministero della Difesa lanciando un appello e chiedendo di essere salvato. Il suo passaggio in Pakistan a settembre lo aveva messo temporaneamente al sicuro, ma il suo visto pakistano sarebbe scaduto entro la fine dell’anno e a quel punto avrebbe avuto soltanto due opzioni: restare in Pakistan in clandestinità, con tutti i rischi del caso, oppure rientrare nel suo Paese.

Il vero dramma si era però consumato ad agosto, quando lui e i suoi cari, come richiesto da funzionari diplomatici italiani, erano partiti da Herat tracciando una linea di demarcazione netta col passato. L’obiettivo era salire a bordo di uno degli aerei messi a disposizione dal nostro contingente per le evacuazioni. Le due settimane seguenti, da ferragosto in avanti, sono andate in scena in mondovisione mostrando a tutti il senso di una sconfitta epocale della Nato. In mezzo al caos all’aeroporto internazionale di Kabul c’erano anche Kabir e la sua famiglia che, a differenza di altri, su quei voli non sono riusciti a salire. Ecco cosa raccontò Haidary a Ilfattoquotidiano.it a proposito dei giorni concitati all’esterno dello scalo della capitale afghana: “Al telefono mi hanno detto di partire per Kabul, di portare la famiglia e di stare tranquillo, ci avrebbero messo su un aereo in partenza per l’Italia. Dopo l’attentato vicino all’aeroporto le chiamate si sono fermate e nessuno ha più risposto. Eravamo sulla lista per l’evacuazione, l’Italia non può abbandonarci così”.

Evidentemente, seppure con i suoi tempi dettati da un quadro assolutamente instabile, l’Italia non ha abbandonato Kabir Haidary a un destino scritto. Fallito il tentativo di essere evacuato nella prima ondata, l’ex collaboratore del contingente italiano è passato in Pakistan. Lo avesse fatto un mese più tardi non ce l’avrebbe fatta visto che le frontiere tra i due Paesi sono state sigillate e i visti non sono più stati emessi, costringendo gli afghani a mirabolanti fughe clandestine. Ha tentato di prendere contatti con l’Ambasciata italiana a Islamabad e atteso un segnale decisivo: “Eravamo separati dai miei genitori, loro a Kabul e noi a Peshawar (la città pakistana più vicina al confine afghano, ndr) – aggiunge Haidary – L’unico modo sicuro per farli arrivare qui è stato comprare un biglietto aereo per loro coi soldi ricavati dalla vendita della casa. I prezzi dei voli erano diventati carissimi, ho speso più di 2mila dollari. Alla fine ci siamo ritrovati insieme, sperando che prima o poi sarebbe arrivato il giorno in cui saremmo riusciti a partire per l’Italia. Nei giorni scorsi quel segnale è arrivato. Il ministero della Difesa ha prima fatto viaggiare il resto della mia famiglia verso l’Italia e mercoledì siamo partito io e mia moglie. Ora siamo tutti in Italia, felici, molto felici”.

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