Cinema

House of Gucci, il cinema tarocco di Ridley Scott colpisce ancora

Ma c'è un dilemma base sul tarocco in questione: House of Gucci deve fare sogghignare o sconvolgere?

di Davide Turrini

Il cinema di Ridley Scott, e nella fattispecie House of Gucci, può essere banalmente riassunto proprio in una sequenza del film sulla saga spicciola del marchio della moda (che fu) italiano. Il momento è quello in cui Patrizia Reggiani (Lady Gaga, incassata tra le spalle da inizio a fine film) scopre che la domestica dell’appartamento principesco suo e di Maurizio Gucci (Adam Driver) sfodera una borsetta con il marchio di famiglia (acquisita, per lei). Ma come, dice la Reggiani/Lady, riesci a comprarti una borsa Gucci con quella miseria che ti do per pulire i cessi? E la cameriera risponde un po’ come la Mammy di Via col Vento: ma signora non lo sa, giù all’angolo vendono borsa Gucci tarocca! Ecco che Reggiani/Lady si fa la sua passeggiata tra vu cumprà newyorchesi e capisce che con quattro sferruzzatine a pelle e metalli anche la plebe meno raffinata può imitare le grandi firme della moda. Mutatis mutandis eccoci ad House of Gucci, o a Tutti i soldi del mondo, o Prometheus: cinema tarocco che imita la griffe “alta”. Nell’ambito estetico siamo tra il trash (le protesi abnormi e pesanti sul corpo di Jared Leto/Paolo Gucci definite in altra sede modello Little Britain) e il camp (la ricostruzione anglosassone di un’atmosfera “italiana” tra recitazione gesticolare/marionettistica e linguaggio modello Padrino).

In quello puramente cinematografico siamo tra la farsaccia strascinata stancamente (il rapporto tra Leto/Paolo e Al Pacino/Aldo Gucci pare quello tra Stanlio e Olio) e un melodramma raffazzonato (Adamone Driver/Maurizio che ride come un gonzo per due ore e ventinove, ma nei due mezzi minuti in cui la Reggiani/Lady vuole allungare le zampacce sul marchio Gucci fa il faccione arrabbiato alla Arnold-Gary Coleman “che cavolo stai dicendo Willis?”). Insomma, un disastro di proporzioni ingenti. E non è nemmeno una questione di matrice non centrata da commedia yuppies anni ottanta, quel ridatece Boldi e De Sica urlato da Marco Giusti su Dagospia. House of Gucci vive di una consapevolezza estetica, drammaturgica, produttiva, tesa a stereotipizzare con mano pesante e in chiave tardo poppeggiante i già frusti luoghi comuni su Italia, italiani, soldi e moda. E lo fa con una sicumera da tavolata di inglesi con rosso toscano in mano tra le colline senesi. Ed è qui che sbuca il tarocco, l’imitazione, il famoso Tavernello spacciato per Chianti di stinghiana memoria. Scott imprigiona una tragedia classica, con ascesa e declino socio-economico di una donna già benestante ma ulteriormente avida nel jet set della moda, nella gabbia del suo cinema oramai prevalente negli ultimi decenni che è comunque figlio di quell’estetica patinata, superficiale, gonfia di effimero da inizio anni ottanta.

Il lavorio ai fianchi (larghi) della Reggiani/Lady Gaga è rozzo e scontato come solo un imitatore da sagra di paese potrebbe fare. Le pennellate goffe sulla dimensione circense freak della famiglia Gucci è da disegnaccio sballato e improvvisato che nemmeno alle scuole medie nell’ora di educazione artistica. House of Gucci, nell’insieme di oltre due ore e mezza non ha pathos, non ha forza, non ha energia, se non appoggiandosi al catafalco sontuoso e presuntuoso di una messa in scena pubblicitariamente ipertrofica e svuotata di senso epico. Dov’è il percorso individuale e morale verso l’alto e poi verso il basso della Vedova Nera? Sarà mica nei musetti forniti da Lady Gaga in versione dark (non lady, ma bulbo pilifera), stretti in quegli abiti, tute da sci paonazze anni ottanta o in quell’attimo di lei piangente che stalkerizza Maurizio Gucci sotto casa di notte mostrandogli l’album di fotografie con loro due insieme e un “non vedi come stavamo bene”?

Ma è in un altro paio di dettagli che House of Gucci prende il volo in direzione iperuranio scottiano: l’uso smodato in sottofondo musicale dei brani d’opera, degli acuti pavarottiani che sovrastano la disco music comunque presente ma non proprio invadente, anzi; e l’attimo di abbocco dei due killer da parte della Reggiani e di Pina Auriemma (qui una Salma Hayek imbarazzante): un tavolinetto preso di risulta dalle scenografie di Tutti i soldi del mondo, quattro battute grezze e informi, due musetti criminali di Lady Gaga che paiono, appunto, precipitate dall’imitazione di Gomorra, e un’uscita di scena sgangherata, traballante, della protagonista in campo lungo che pone il dilemma base sul tarocco in questione: ma House of Gucci deve fare sogghignare o sconvolgere? Nel dubbio, sempre che ne esista uno, perché la ghignata è dietro l’angolo, a imperitura memoria c’è il Jared Leto/Paolo Gucci che qualcun altro ha già paragonato, giustamente, al Tony Clifton di Jim Carrey in Man on the moon.

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