È notizia di pochi giorni fa che in Giappone sono in corso alcuni test per creare uno yen digitale. La criptovaluta, chiamata DCJPY, dovrebbe essere lanciata sul mercato nel 2022. In effetti, già da tempo nel mondo si discute dell’opportunità di introdurre criptovalute di Stato, tecnicamente stablecoin denominate “CBDC” (Central Bank Digital Currency), il cui valore è ancorato a quello della valuta avente corso legale (valuta “fiat”) in un rapporto di 1:1.

La stessa Unione Europea (seguendo l’esempio di alcuni Stati) ha avviato un progetto per l’emissione e circolazione di un euro digitale su blockchain, che dovrebbe garantire efficienza, trasparenza, liquidità e velocità delle transazioni, aumentando l’inclusività finanziaria e prevenendo il rischio di riciclaggio di denaro e di attacchi informatici. Ma è davvero così? Cosa si cela dietro l’improvvisa e affannosa rincorsa degli Stati di tutto il mondo alla creazione di una loro criptovaluta?

Innanzitutto, si sta giocando una partita importantissima che vede, da una parte, gli Stati e, dall’altra, il comune “amico-nemico” Bitcoin (simbolo e allo stesso tempo capro espiatorio di tutto l’universo dei cryptoasset): in palio c’è il monopolio pubblico della moneta, da sempre nelle mani dei governi centrali, ma oggi messo in discussione dalla rivoluzione tecnologica della blockchain.

Chiariamo subito che non esiste una definizione universalmente accettata di moneta, sebbene tale concetto accompagni l’uomo sin dall’antichità. In estrema sintesi, gli esperti riconoscono alla moneta tre funzioni:

1) unità di conto, che assolve la funzione di prezzare beni e servizi in unità numeriche (quanto più è stabile – cioè poco volatile – il tasso di cambio di una moneta, tanto più assolve tale funzione);

2) riserva di valore, che assolve la funzione di mantenere stabile nel tempo il valore di una valuta, in modo che possa essere conservata come risparmio ed essere spesa in futuro;

3) mezzo di pagamento, che assolve la funzione di scambio di beni e servizi contro un corrispettivo in valuta.

Semplificando, i governi detengono il monopolio della moneta al fine di garantire tali funzioni, il che è sicuramente apprezzabile. La stabilità della moneta è infatti fondamentale per il commercio e per l’ordine economico, nonché per le finanze dei cittadini. Nondimeno, da più parti è stato correttamente osservato che Bitcoin e payment token non assolvono appieno tali funzioni e non sono pertanto equiparabili ad alcun tipo di strumento di pagamento tradizionale (nonostante l’Agenzia delle Entrate sia di opinione contraria). Basti pensare all’elevata volatilità di tali asset o alla circostanza che Bitcoin, ad oggi, è assimilabile a oro digitale, perché è un bene emesso in quantità limitata, che spinge gli investitori a tenerlo (“HODL”), anziché a spenderlo.

Apparentemente, pertanto, criptovalute e valute tradizionali potrebbero convivere serenamente, eppure gli Stati temono fortemente che possano sovvertire il dogma della sovranità monetaria per un motivo ben preciso: le criptovalute (e in particolare Bitcoin) ridisegnano il concetto di fiducia che è alla base dei rapporti economici e, dunque, monetari.

L’accettazione di un bene (oro, banconote o criptovalute) come moneta si basa sempre sulla fiducia che tutti noi riponiamo nel valore di quel bene. In fondo, l’accettazione di pagamenti in euro da parte di tutti noi avviene perché l’Unione Europea e il mercato globale garantiscono, in varie forme (vere o presunte), che l’euro continuerà ad assolvere tali funzioni. Nell’antichità, l’oro era accettato ovunque perché tutti ritenevano che altri avrebbero accettato di essere pagati in oro, e così vale per le monete “fiat”. Senza fiducia non vi può essere moneta.

Le criptovalute non sono emesse o garantite da una banca centrale o da un’autorità pubblica, bensì da tutti i partecipanti alla rete e questo rivoluzionario concetto di fiducia distribuita, grazie alla sicurezza della tecnologia sottostante, potrebbe minare la sovranità monetaria degli Stati, perché Bitcoin per certi versi rappresenta un sistema più affidabile dei governi centrali e dunque potrebbe “concorrere” con le monete tradizionali.

Ma gli Stati, con l’introduzione di stablecoin centralizzate, paiono non soltanto voler riaffermare la loro sovranità monetaria, bensì potrebbero tecnicamente spingersi molto oltre, creando un penetrante meccanismo di controllo dei cittadini, che presenta luci e ombre. Con l’introduzione di stablecoin statali, infatti, sarà definitivamente possibile velocizzare i trasferimenti di moneta (si pensi all’eliminazione dei tempi e dei costi di invio e ricezione dei bonifici), eliminare il contante e sostituirlo con pagamenti tracciati in modo inalterabile. In un futuro non troppo lontano, in cui tutto sarà tracciato e l’unica moneta statale consisterà esclusivamente in una scritturazione contabile detenuta dai governi centrali, i vantaggi potrebbero essere notevoli (si pensi alla drastica riduzione dell’evasione fiscale), ma i rischi di censura e di controllo dei cittadini potrebbero essere enormi.

Non è infatti un caso che Bitcoin sia sorto all’indomani della crisi del 2008, come una moneta 2.0 idonea a garantire democraticità e libertà finanziaria. In oltre dieci anni di esistenza, Bitcoin è cambiato molto e ancora cambierà, non è la soluzione a tutti i mali (basti pensare al fondamentale problema del consumo energetico), ma non è nemmeno quel demone che a volte viene descritto. C’è chi addirittura ha definito Bitcoin una “moneta cattiva” (citando una legge economica del XVI secolo), suggerendo che le “monete buone” siano soltanto quelle statali, con un paternalismo economico che probabilmente non ha più ragion d’essere.

Occorrono, pertanto, più equilibrio e più attenzione da parte di tutti noi. Sono certamente innegabili i vantaggi di una stablecoin statale, ma è altrettanto auspicabile che i governi di tutto il mondo volgano lo sguardo a Bitcoin e al mondo crypto con più coraggio e spirito critico, abbracciando l’evoluzione sociale ed economica che esso porta con sé in un nuovo ordine economico, in cui Bitcoin potrebbe rappresentare l’esperanto dell’economia globale, senza per questo soppiantare le valute statali.

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