La conferenza di Glasgow sul clima, la COP26, è arrivata a un documento condiviso che stabilisce certi obiettivi e propone delle azioni concrete. E’ meglio di niente, ma è anche vero che si va avanti molto lentamente: dovremmo fare molto di più se vogliamo veramente fermare il cambiamento climatico. Come mai non ci si riesce?

Il problema che abbiamo di fronte è quello descritto da Garrett Hardin già nel 1968 con il termine “tragedia dei beni comuni”. Hardin aveva notato come l’interesse individuale si trovi spesso in contrasto con l’interesse comune quando abbiamo a che fare con qualcosa che appartiene a tutti. Hardin parlava dei pascoli inglesi, ma la stessa idea vale per l’atmosfera. E’ un “bene comune” che appartiene a tutti. Il problema è che nessuno vuole sacrificarsi per fare un favore agli altri – perlomeno non oltre certi limiti. E siccome nessuno si sacrifica, va a finire che il bene comune viene distrutto o reso inservibile – cosa che ci potrebbe capitare con l’atmosfera terrestre se le cose continuano così.

Per fortuna, la “tragedia” di Hardin non è una conseguenza necessaria della gestione dei beni comuni. Questo argomento è stato studiato da Elinor Ostrom (1933-2012) la prima donna che ha ottenuto il premio Nobel per l’economia. Ostrom era andata a studiare sul campo i metodi di gestione di risorse comuni come foreste, fiumi o pascoli. Aveva trovato che in molti casi la gestione tradizionale funzionava benissimo quando tutti gli interessati avevano un ruolo attivo nelle decisioni e dove tutto il meccanismo era trasparente per tutti.

Secondo Ostrom, con una gestione condivisa e trasparente si generano dei meccanismi di controllo reciproco che tendono a neutralizzare i tentativi di imbrogli. E’ un modello di gestione che spesso nasce in modo spontaneo quando si tratta di gestire risorse comuni, per esempio foreste, pesca, pascoli e altro. Ostrom ha anche trovato che quando il governo ci mette lo zampino, spesso succedono dei disastri.

Allora, proviamo ad applicare le idee di Ostrom alla gestione dell’atmosfera terrestre. Chiaramente, la conferenza COP26 è stata gestita dall’alto – in modo “verticale” – e i presidenti dei paesi occidentali l’hanno utilizzata per farsi belli. Non solo: il convegno ere fortemente sbilanciato verso l’Occidente, basti notare l’assenza del premier cinese Xi Jinping.

Questo sbilanciamento del convegno in senso sia sociale che geografico e culturale potrebbe essere il suo limite principale, sia per la diffusa sfiducia in occidente verso i governi sia per il fatto che in Asia molta gente ne ha abbastanza degli occidentali che si mettono in cattedra. Se vi interessa leggere qualcosa su questa opinione diffusa in Asia, potete leggere il libro del mio collega e amico Chandran Nair, Dismantling Global White Priviledge, che dovrebbe uscire a breve.

Da noi, la Cina è spesso considerata il “cattivo” della questione climatica dato che è il principale emissore di gas serra al mondo. Ma è anche vero che le emissioni pro-capite dei cinesi sono molto inferiori a quelle occidentali. Per non parlare del rapido sviluppo delle energie rinnovabili e dell’elettrificazione del trasporto in Cina. Poi, sotto molti aspetti, la Cina è più avanzata dell’Occidente in termini della gestione dei beni comuni. Mi diceva Chandran Nair che la Cina promuove “una revisione profonda delle economie… che si basa sul concetto di prosperità comune (benessere collettivo contro diritti individuali), ridefinisce i diritti e le libertà e limita il sovraconsumo di tutti i tipi”.

Sono concetti molto adatti ad affrontare la crisi climatica. Certo, da qui a dire che i cinesi risolveranno il problema ce ne passa, ma direi che ci sono speranze che possano fare qualcosa di concreto. Forse meglio di quanto siamo riusciti a fare noi, fino ad ora più che altro chiacchiere.

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