Da Italia viva a Fratelli d’Italia passando per Pd, Forza Italia e una frangia del Movimento 5 Stelle. L’insistenza di Carlo Bonomi sembra dare i suoi frutti: la richiesta di Confindustria di salvare il patent box ha raccolto un inedito sostegno bipartisan. Tutte le forze politiche, con l’eccezione della Lega, hanno depositato in commissione al Senato emendamenti che chiedono di sopprimere l’articolo 6 del decreto fiscale, quello che abolisce la detassazione del 50% sui redditi derivanti dall’utilizzo commerciale di brevetti, software con copyright e altri beni immateriali protetti da proprietà intellettuale sostituendolo con una comunque generosa deduzione del 90% per i costi di ricerca e sviluppo. Se le loro richieste passeranno, lo Stato dirà addio a un beneficio di 1,6 miliardi in termini di gettito. A vantaggio di una piccola fetta di aziende (poco più di 1.700 quelle che hanno beneficiato nel 2018, ultimo anno per cui sono disponibili le statistiche del Tesoro).

Il numero uno di viale dell’Astronomia da quando ha letto manovra e decreto fiscale è furioso nei confronti del governo di Mario Draghi, che solo a settembre paragonava a De Gasperi definendolo “uomo della necessità“. In cima al suo cahier de doléances c’è, insieme alla stretta sulle rivalutazioni, proprio la decisione di rottamare lo sconto fiscale introdotto nel 2014 dal governo Renzi: sarebbe un errore, dice, perché “stimolava gli investimenti in ricerca e nella realizzazione di brevetti”. L’affermazione non è supportata da alcun dato, anzi diversi lavori empirici su altri Paesi europei sono arrivati alla conclusione che i patent box non hanno impatto sull’innovazione e sulla ricerca e sviluppo: sono solo un incentivo a trasferire brevetti negli Stati che offrono condizioni più favorevoli. Questo, del resto, è il primo obiettivo citato sulla pagina web del ministero dello Sviluppo economico dedicata alla misura. Bonomi però prescinde da queste analisi e dalle considerazioni della Corte dei Conti, che ha notato come la misura sia andata per i due terzi a vantaggio di una piccola minoranza di grandi imprese (è noto che ne hanno goduto tra gli altri Ferrari, Campari, Diasorin, Luxottica, Prysmian e molti brand della moda). Il suo refrain è che lo si vuole abolire per consentire ai partiti di finanziare le loro “bandierine“, ovvero misure come il reddito di cittadinanza.

Le forze politiche però non sono rimaste sorde al grido di dolore delle imprese. La pioggia di emendamenti pro Confindustria preoccupa le organizzazioni e i gruppi di pressione per la giustizia fiscale, secondo cui il patent box è uno strumento che contribuisce alla concorrenza fiscale al ribasso tra Paesi. “Che Forza Italia e Italia viva abbiano chiesto l’abrogazione del comma 6 non stupisce”, commenta Misha Maslennikov, policy advisor di Oxfam Italia sui dossier che riguardano la giustizia economica. “Al contrario ci lascia perplessi il fatto che emendamenti identici siano arrivati dal Pd e dal M5s, che pure al suo interno è diviso”. Se Gianmauro Dell’Olio è per il ritorno allo status quo nel senso chiesto da Bonomi, infatti, Daniele Pesco firma invece una proposta che corregge in senso migliorativo la nuova superdeduzione al 90% escludendo che sia applicabile ai costi di presentazione, comunicazione e promozione dei marchi. Vale a dire, per esempio, le attività pubblicitarie e la partecipazione a fiere ed eventi, cosa che poco c’entra con l’innovazione. Paola Nugnes e Virginia La Mura fanno di più, prevedendo in aggiunta che anche dal nuovo regime siano esclusi i marchi di impresa (già tagliati fuori dal patent box nel 2017 per rispettare le raccomandazioni Ocse) con l’eccezione di quelli funzionalmente equivalenti a brevetti.

Il braccio di ferro proseguirà nei prossimi giorni con la scelta degli emendamenti “segnalati” dai gruppi e destinati dunque a quasi sicura approvazione. Nota a margine: per le imprese nel decreto fiscale non arriva solo la stretta sul patent box – sempre che passi – ma anche una nuova sanatoria. Quelle che tra 2015 e 2019 hanno indebitamente utilizzato il credito d’imposta per investimenti in ricerca e sviluppo potranno (tranne che nei casi in cui è stata contestata una frode) mettersi in regola senza pagare sanzioni e interessi. L’Agenzia delle Entrate ha contestato fruizioni indebite per 4,2 miliardi. La previsione di incasso dalla sanatoria è risibile: una trentina di milioni all’anno.