Se la novità inserita a sorpresa nel decreto fiscale passerà indenne attraverso l’iter di conversione è tutto da vedere. Perché Confindustria è già sul piede di guerra e non è escluso che trovi sponde in Parlamento. A scontentare il presidente Carlo Bonomi è l’articolo 6 del provvedimento pubblicato in Gazzetta il 21 ottobre, che cancella il regime agevolato del “patent box” introdotto in Italia nel 2014 dal governo Renzi sulla scia di Belgio, Cipro, Gran Bretagna, Lussemburgo e Olanda. Si tratta di un forte sconto fiscale sui redditi derivanti dall’utilizzo commerciale di brevetti, software con copyright e altri beni immateriali protetti da proprietà intellettuale. L’obiettivo dichiarato era promuovere gli investimenti in ricerca e sviluppo. Ma secondo i critici la misura, che ha sottratto a tassazione oltre 9 miliardi di euro nei quattro anni per i quali sono disponibili le analisi del Tesoro, è servita solo a indurre le aziende a riportare o lasciare in patria il frutto di quegli investimenti contribuendo alla concorrenza fiscale (al ribasso) tra Paesi Ue. Mentre non c’è evidenza che stimoli l’innovazione.

“Sul caso italiano non ci sono dati, il che di per sé è un problema perché manca il monitoraggio sui risultati. Ma ci sono diversi lavori empirici su altri Paesi europei che mostrano come non sia la scelta migliore”, spiega Misha Maslennikov, policy advisor di Oxfam Italia sui dossier che riguardano la giustizia economica. “Fabian Gaessler e Dietmar Harhoff del Max Planck Institute insieme Bronwyn H. Hall dell’Università della California hanno trovato, per esempio, che i patent box tendono a stimolare il trasferimento di brevetti da parte delle multinazionali nei paesi con le condizioni fiscali più favorevoli (il cosiddetto onshoring), ma a differenza dei crediti di imposta per le spese di R&D non generano un incremento delle invenzioni né della ricerca e sviluppo”. Una conclusione a cui è arrivata anche la Commissione Europea in uno studio del 2014, che ha indotto il Parlamento Ue a includere i patent box tra gli “esempi di competizione fiscale dannosa tra gli Stati”. Il paper di Gaessler, Harhoff e Hall “spiega poi che questi trattamenti agevolati non premiano chi investe ma solo chi ottiene un risultato in termini di prodotto commercializzabile”, continua Maslennikov. “Di conseguenza ne beneficiano soprattutto imprese cha hanno già avuto successo. Un metodo che non sembra molto efficiente, considerati i costi che comporta”.

I costi, appunto: secondo il presidente di Confindustria la decisione di abolire il patent box è stata presa perché il Mef, “pressato dai partiti per trovare risorse per misure bandiera che i numeri hanno smentito, cerca inevitabilmente nuove coperture tagliando e limitando misure già esistenti”. E il patent box, che oggi consente di escludere dalla base imponibile il 50% dei redditi derivanti dall’utilizzo dei brevetti, come le royalty, non costa poco alle casse dello Stato. Nel 2018, ultimo anno per cui sono disponibili le statistiche del ministero dell’Economia sulle dichiarazioni Ires ed Irap, dell’agevolazione hanno beneficiato 1.764 società per un reddito detassato pari a 4,7 miliardi, 1,7 volte il valore del 2017 e oltre tre volte quello del 2016. La Corte dei Conti ha reso noto che la perdita di gettito solo per quell’anno ha sfiorato i 700 milioni (dai 337 del 2017) contro i 135 preventivati. Nel 2019, spiega la relazione tecnica al decreto fiscale, i mancati introiti sono lievitati a 1,6 miliardi.

A vantaggio di chi? L’Agenzia delle Entrate non fornisce i dettagli sulle procedure di ruling attraverso le quali il fisco (fino alla modifica normativa arrivata nel 2019) doveva concordare con le aziende il reddito agevolabile. Ma molte aziende hanno annunciato gli accordi e i bilanci sono pubblici. Così sappiamo che della nutrita lista fanno parte Ferrari – che due anni dopo il trasferimento della sede legale in Olanda ha concordato con le Entrate un risparmio di 139 milioni in un triennio -, Campari, Diasorin, Luxottica, Prysmian e molti brand della moda: da Armani a Ferragamo e Tod’s passando per Cucinelli, Moncler e Prada. Dall’analisi delle dichiarazioni dei redditi è emerso, annota la magistratura contabile, che “l’8,3 per cento dei beneficiari, che ha ricavi superiori a 250 milioni di euro, ha utilizzato circa il 63 per cento del reddito detassato il che porterebbe a ritenere che circa 100 imprese hanno presentato deduzioni medie per un valore di 18 milioni di euro”. Tradotto: pochi grandi gruppi hanno evitato di pagare un bel po’ di tasse.

Ora il meccanismo – fatti salvi gli accordi quinquennali già firmati e le istanze già presentate – verrà sostituito con una comunque generosa deduzione del 90% per i costi di ricerca e sviluppo che riguarderà anche i marchi di impresa, che erano stati esclusi dal regime patent box nel 2017 per rispettare le raccomandazioni Ocse. La relazione tecnica prevede che dal cambio di rotta deriveranno maggiori entrate per 111 milioni nel 2022 e 126 l’anno nel 2023 e 2024. Da quell’anno, con l’esaurimento dei vecchi regimi in corso, dovrebbe poi materializzarsi un ben più significativo recupero di gettito. Sempre che durante il passaggio parlamentare non arrivino le modifiche auspicate da Confindustria.

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