L’obiettivo della manovra di Bilancio del governo di sostenere l’economia nella fase di uscita dalla pandemia e di rafforzare il tasso di crescita nel medio termine è condivisibile. Di questo obiettivo andrebbero però valutati i costi e i benefici, le effettive ricadute occupazionali e gli eventuali vantaggi sull’ambiente (economia circolare, riconversione green). A prima vista, gli ultimi provvedimenti sembrano coerenti con questi obiettivi. Ma in realtà sia il Dl Infrastrutture che la Manovra di Bilancio non considerano le conseguenze negative, economiche ed ambientali, delle novità che introducono.

Le nuove reti e le infrastrutture avranno in futuro enormi costi di gestione e di manutenzione, se non si vuole ripetere le tragedie già viste del ponte Morandi o di Viareggio, e in questa direzione dovrebbe andare la maggior parte degli investimenti.

Le misure a maggior impatto sul Pil contenute nel dl infrastrutture e nella legge di Bilancio, al contrario, poggiano eccessivamente su interventi tradizionali: come la eccessiva infrastrutturazione di reti e punti di rete (ferroviarie, autostradali, portuali e aeroportuali) che vanno ben oltre ogni più rosea previsione del loro utilizzo. Anzi, è bene ricordare che la media di utilizzo degli aeroporti italiani è già la più bassa d’Europa (basti vedere il sottoutilizzo di Malpensa), e così quella dei porti, per non parlare delle ferrovie che dispongono di 20mila km di rete tradizionale al 60% sottoutilizzata. La futura domanda è, di norma, sopravvalutata e quindi un soddisfacente utilizzo di nuove infrastrutture non è per niente assicurato.

Nuovi interventi nei piccoli porti, nuove autostrade, potenziamento di aeroporti minori e l’implementazione del sistema europeo di gestione satellitare del traffico ferroviario (ERTMS) sono alcuni degli interventi su cui poggiano il Piano degli investimenti PNRR. Ancora una volta si va avanti con la vecchia logica: prima nuove infrastrutture, solo poi la “speranza” che vengano gestite con efficienza (e che ci sia una domanda che le giustifichi). Ma senza l’introduzione di norme che superino le gestioni monopolistiche – previste in un ddl sulla concorrenza rinviato di fatto per la seconda volta – il Paese rischia di trovarsi con tanto nuovo cemento ma senza il traffico che dovrebbe giustificare un nuovo consumo di suolo.

Da anni l’Italia sconta, in diversi settori, una gestione inefficiente dei servizi offerti (pubblici e privati) sia per il trasporto delle merci che dei passeggeri. Mantenendo inefficienti le gestioni delle aziende sulle reti (autostrade, ferrovie, acqua, gas ed elettricità) e dei punti di rete (aeroporti, porti, interporti) si rischia in prospettiva di distruggere ricchezza anziché crearla, e di diffondere rendite parassitarie anziché spalmare la ricchezza creata a beneficio della nascita di nuove imprese nei settori citati, che invece restano ai margini del mercato.

Anche questa volta, quindi, ricerca e sviluppo tecnologico partono sottotono con il freno tirato. I benefici ambientali vanno calcolati sapendo che per la CO2 emessa dal trasporto su strada lo Stato incassa dalla fiscalità molte più risorse di quelle necessarie per ridurre le emissioni: è per questo che i costi della gestione dei trasporti con meno emissioni vanno ridotti. Valutazioni degli investimenti, spending review, efficienza gestionale, concorrenza restano troppo sullo sfondo di queste grandi “spese a pioggia” che accolgono tutto e il contrario di tutto.

Ancora una volta, la frammentazione dei provvedimenti è preferita all’avvio di un serio progetto di riforme. Sarebbe stato molto meglio iniziare ad investire su progetti già valutati positivamente, e in particolare in quelli manutentivi piuttosto che in quelli costruttivi, e avviare la riforma del ministero dei Trasporti e della Mobilità sostenibile e le riforme di struttura (ammortizzatori sociali, sanità, concorrenza, pensioni).

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