“Io non so cosa mettere a tavola. L’avvocato a cui ci siamo rivolti per trovare una soluzione dopo l’appuntamento ci ha offerto una pizza”. Adelaide Mazzucca è arrabbiata ma anche determinata a chiedere aiuto per raccontare una storia che come dice il generoso legale citato, Michele Giacco, ha “contorni kafkiani”. Questo perché Simone Pagliantini, il marito di Adelaide, dopo essere stato assolto a Prato ormai quasi sei mesi fa insieme a un collega vigilante dall’accusa di omicidio preterintenzionale con la formula del fatto non sussiste, non può ancora ottenere il decreto di nomina di guardia giurata e il libretto di porto d’armi che erano stati revocati perché c’era una indagine in corso.

“È una dimensione surreale, sono in una zona di mezzo: sono stati assolti ma non possono esercitare il loro lavoro” spiega l’avvocato. Questo perché la prefettura ha un potere discrezionale e attende le motivazioni della sentenza, ormai emessa il 28 aprile scorso, per valutare se rispondere positivamente all’istanza di riottenere i permessi. Nelle motivazioni, benché di assoluzione piena, potrebbero esserci elementi che potrebbero far ritenere l’uomo “non idoneo a utilizzare un’arma”. Senza i permessi Pagliantini non può lavorare e Adelaide non può farlo perché affetta da una patologia che le impedisce anche semplicemente di muoversi liberamente. Con un figlio in casa la situazione è diventata insostenibile: “Siamo disperati”. L’aiuto ricevuto anche da una associazione di volontari non basta. Le motivazioni erano attese a fine luglio, ma il giudice non ha ancora depositato e dopo 3 anni e mezzo di percorso giudiziario, anche un solo giorno in più a questa famiglia sembra un’ingiustizia: “Mio marito è stato assolto ma no può lavorare”.

L’avvocato ricorda anche che, non solo i due vigilantes sono stati assolti, ma il giudice per l’udienza preliminare di Prato, Francesco Pallini, ha trasmesso alla procura gli atti per la valutazione delle parole di una dottoressa che ha innescato il processo accusandoli di aver picchiato un paziente arrivato in pronto soccorso la notte tra il 3 e il 4 ottobre 2017. L’uomo, tossicodipendente e già malato, aveva dato in escandescenza perché non poteva essere visitato. Prima di essere portato in ospedale aveva chiamato un’ambulanza per chiedere aiuto per dolori fortissimi al collo, alle braccia, alle gambe e febbre a 40. Arrivato in ospedale si era allontanato e poi era ritornato.

I due vigilantes erano intervenuti per riportare la calma e quando la dottoressa era ritornata aveva trovato l’uomo a terra con il volto insanguinato. L’uomo, medicato e successivamente ricoverato, aveva poi accusato i due vigilantes di essere stato picchiato a calci e pugni. Agli atti di un procedimento lungo e complesso ci sono consulenze e perizie – con risultati diversi – che però hanno stabilito che la lesione spinale diagnosticata all’uomo, diventato tetraplegico e morto un anno dopo i fatti, non poteva essere la conseguenza di un trauma. E agli atti c’è anche il rigetto della misura cautelare da parte del giudice per le indagini preliminari che non aveva ritenuto ci fossero elementi di prova: secondo il giudice le ferite al volto potevano essere compatibili con una caduta accidentale dovuta allo stato del paziente e le indagini scientifiche avevano dimostrato che la lesione spinale era appunto di tipo infiammatorio. Una valutazione poi confermata di fatto dal giudice di merito. Durante la requisitoria invece l’accusa aveva chiesto pene fino a 6 anni e 10 mesi. “Abbiamo sofferto tanto – avevano detto le due guardie giurate dopo il verdetto – la verità ha vinto su tutto. Ai nostri avvocati va il ringraziamento per averci riportato ad una vita che ora dovremmo ricominciare. Ai nostri figli e alle nostre famiglie è stata negata pace e serenità, ora finalmente questo incubo è finito”. O almeno lo sembrava.

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