Si assottiglia la lista dei paradisi fiscali. È il risultato della riunione del Consiglio Ue tenutasi il 5 ottobre, in cui i ministri dell’Economia e delle Finanze dell’Unione si sono accordati per cancellare Anguilla, Dominica e Seychelles dall’elenco delle giurisdizioni non cooperative ai fini fiscali. Una decisione che promuove i tre Paesi nella cosiddetta “lista grigia“, composta da chi non rispetta tutti gli standard fiscali internazionali ma è considerato impegnato ad attuare i principi di buona governance. Come spiega una nota del Consiglio, le tre nazioni erano state precedentemente inserite nella black list perché non soddisfacevano i criteri di trasparenza che l’Ue ritiene indispensabili per essere classificati almeno come “ampiamente conformi” con riguardo allo scambio di informazioni su richiesta. La rimozione è stata preceduta dalla decisione di concedere alle giurisdizioni un riesame supplementare in materia. Dopo l’aggiornamento, quindi, restano nove i Paesi consideraticanaglia” in materia di tributi: Samoa americane, Fiji, Guam, Palau, Panama, Samoa, Trinidad e Tobago, Isole Vergini Us e Vanuatu.

“Reiteriamo le nostre critiche alla debolezza dei criteri di listing, all’esclusione a priori dallo screening dei Paesi Ue e riflettiamo sugli sviluppi auspicabili, ma anche quelli da scongiurare, dell’elenco europeo”, ha scritto in post su Twitter Mikhail Maslennikov di Oxfam Italia, confederazione internazionale di ong che si dedicano alla riduzione della povertà globale. Il suo commento ribadisce le posizioni già espresse dalla ong in una nota del 30 settembre in cui si evidenziavano diverse criticità nel sistema di categorizzazione del paradisi fiscali dell’Unione Europea. “La lista presenta attualmente solo uno dei 12 Paesi del mondo con un’aliquota fiscale dello 0%, solo uno dei 17 paradisi fiscali dove operano le banche europee e ignora le isole Cayman nonostante presentino un livello di profitti pre-tasse di 36 milioni di dollari per dipendente”, si legge nel documento. Lacune da cui, secondo Oxfam, non è esente neppure l’accordo per una tassa globale minima negoziato in sede G20, che prevede per le multinazionali la tassazione nei Paesi in cui vendono e l’applicazione di un’aliquota d’imposta minima del 15%. Questi due criteri infatti rischiano per la ong di “favorire soprattutto le nazioni ricche incanalando quasi tutte le entrate verso i Paesi di residenza”.

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