La colpa è stata di un volo. O almeno così racconta la leggenda. Un giorno Roman Abramovich sta sorvolando Londra a bordo del proprio elicottero. Guarda fuori dal vetro, fino a quando i suoi occhi non vengono attratti da una sagoma. Non è uno stadio qualsiasi. È Stamford Bridge. Un impianto che ospita un club antico e blasonato. Ma che non vince il campionato ormai da quarantotto anni. Il magnate trattiene il respiro. Per un attimo si sente come Stendhal all’uscita di Santa Croce. E in quel momento tutto diventa chiaro nella sua testa. Quello stadio deve diventare la sua nuova casa sportiva. A tutti i costi. Non c’è desiderio che il denaro non possa comprare. Così nel luglio del 2003 Roman Abramovich stringe la mano a Ken Bates e acquista il club. E tutti i suoi debiti. Fanno circa 130 milioni di euro. Niente di particolarmente oneroso per un uomo che, secondo Forbes, può contare su un patrimonio personale di quasi sei miliardi di dollari.

Quando si affaccia sulla scena del calcio internazionale Abramovich è un personaggio che sembra uscito da un romanzo del mistero. Di lui si sa pochissimo. Nessuno conosce di preciso la sua storia. Ma tutti sono pronti a raccontare storie. La stampa italiana scava nel suo passato. E trova qualche dettaglio piuttosto curioso. Repubblica lo dipinge come uno degli appartenenti al “clan politico-economico di Russia, quello per intenderci che si raccoglie attorno all’ex presidente Boris Eltsin“, lo racconta come un uomo “misterioso, schivo ed enigmatico”. Il Corriere della Sera scrive di sue amicizie “da brivido”. Quando rileva il club le sue intenzioni sono chiare: trasformare il Chelsea in uno dei club più opulenti e vincenti del nuovo millennio. Per riuscirci servono investimenti spropositati. Abramovich telefona a tutti i club più importanti. Chiede informazioni sui giocatori migliori, avanza offerte impossibili da rifiutare. Qualcuno non lo prende sul serio. Almeno non all’inizio.

Si parla di 120 milioni di euro da investire sul mercato. Una cifra che all’epoca sembrava quasi pornografica. Nella prima metà di luglio sbarca a Milano alle 10.45 del mattino. Offre all’Inter 50 milioni per Vieri. Altrettanti al Milan per Nesta. Trenta alla Juve per Trezeguet. Si informa su Shevchenko, Rui Costa, Kaladze, Montella, Totti, Emerson. C’è chi lo snobba, considerandolo un parvenu. Ma c’è anche chi capisce che gli equilibri stanno per cambiare. “Secondo me, Abramovich va preso molto sul serio: i soldi sono veri. Ma i nostri giocatori non sono in vendita”, dice il dg del Milan Braida. Moggi spiega la decisione di non vendere Davids con un aforisma: “Ci hanno offerto la luna, ma noi vogliamo il sole”. Lo shopping compulsivo si deve accontentare di botteghe meno impegnative. Uno dopo l’altro arrivano Duff, Joe Cole, Mutu, Bridge, Geremi, Johnson, Crespo. Ma c’è anche Veron. Claudio Ranieri, che lo ha comprato, lo definisce il “miglior centrocampista del mondo”. Alex Ferguson, che lo ha ceduto, lo ha salutato appiccicandogli addosso l’etichetta di “disgrazia”. Il tecnico romano viene descritto come “l’allenatore con la carta di credito illimitata” o come il mister “più invidiato del mondo”. È vero. Ma solo parzialmente.

“Così dicono – risponde Ranieri in un’intervista al Corriere – pochi ricordano però che lo scorso anno non ho potuto prendere neanche un giocatore. Diciamo che ora sto compensando”. E ancora: “Sta succedendo a noi quello che è successo al Milan di Berlusconi, al Manchester United o al Real momenti unici”. Sono dichiarazioni importanti. Ma che nascondono un’altra verità. Abramovich non è poi così entusiasta all’idea di dover affidare la sua creatura a Ranieri. Troppo agée, troppo legato alla vecchia scuola. L’allenatore viene messo subito in discussione. Abramovich cerca prima Fabio Capello, poi Sven Goran Eriksson. Luglio non è ancora finito che Ranieri professa ottimismo. La stampa britannica lo dà per esonerato e lui risponde: “Vorrà dire che mi affretterò a puntare sulla mia riconferma, così ci guadagno pure dei soldi”. Ha ragione lui. Almeno per il momento. Il calciomercato del Chelsea dura tutto l’anno. Florentino Perez perde la pazienza. Visto che i londinesi non fanno altro che chiedergli giocatori, lui manda un fax al Chelsea. Un foglio formato A4 che diventa un prezzario: Beckham vale 90 milioni. Ronaldo 80. Zidane “solo” 72. Ma Abramovich segue anche un’altra pista. Parla con degli intermediari.

Il loro compito è capire se c’è del margine di trattativa per portare a Londra Francesco Flachi. I giornalisti di Repubblica intercettano il giocatore, gli chiedono un commento. La punta è più sorpresa di loro: “Non ne so nulla!”, dice. E ha ragione. Prima della semifinale di Champions contro il Monaco Ranieri usa toni molto diversi. In un’intervista a Marca dice: “Da quando ha preso in mano il Chelsea, Abramovich ha sempre voluto Eriksson, fin dall’inizio, si sono anche incontrati in estate. Ma poi Eriksson ha detto di non poter lasciare la nazionale inglese e così il giorno dopo Abramovich mi ha detto che avevo fatto un buon lavoro e che volevano continuare con me”. Poi aggiunge: “Abramovich non capisce niente di calcio”. Ranieri chiude al secondo posto in campionato e a un passo dalla finale di Champions. Ma non basta. Abramovich lo esonera e al suo posto prende un giovane José Mourinho, fresco vincitore della coppa con le orecchie. È l’inizio di un’era d’oro. In 17 anni il Chelsea vince tutto: 5 scudetti, 5 coppe d’Inghilterra, 3 coppe di Lega, 2 Community Shield, 2 Champions, 2 Europa League, una Supercoppa Uefa. Ma non finisce qui. Perché i migliori giocatori e i migliori allenatori del mondo passano tutti per Stamfrod Bridge. Quel club dal grande fascino e dalla bacheca essenziale si è trasformato in qualcosa di diverso. Più internazionale e meno british, più alla moda e più globalizzato, più patinato e meno popolare. Ma, soprattutto, più “fake”. Ma questo sarebbe un altro discorso. Molto più complesso. E forse anche più noioso.

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