Capelli lunghi, pipa di tabacco in bocca, una grande passione per l’arte e un cognome ingombrante. Omar Bin Laden, 40 anni, è il quarto figlio di Osama, ex leader di Al Qaida, l’uomo che ha terrorizzato l’Occidente. Ma dopo che ha rifiutato la violenza, il padre lo ha allontanato. Ora vive in Normandia, in Francia, fa il pittore e sogna di esporre le sue opere al Louvre.

I quadri di Omar – molti dei quali ritraggono cowboy e cavalli – hanno uno stile primitivista e racchiudono la sua vita, ma soprattutto il suo difficile rapporto con il genitore. “Quando avevo sette anni, dopo aver passato del tempo con i cavalli di mio padre nel deserto, tornavo a casa e facevo disegni di cavalli – racconta al giornale australiano The Monthly – L’unico momento felice che ricordo è stato quando ho inviato un’opera d’arte che è stata scelta per essere appesa al muro della scuola – nella cittadina araba di Jeddha – Ricordo di aver disegnato una strada nel deserto, un gruppo di uccelli struzzo e tre cavalli che saltavano le barriere”. La passione per la natura e per i suoi esploratori – un “segno di libertà” – gli è rimasta anche adesso: di fronte alla tela bianca ascolta “The Last Cowboy Song”, mentre quando si sente triste guarda “Gli Spietati” di Clint Eastwood.

Omar soffre di un grave disturbo bipolare. Nei momenti più bui, confessa di sentire la voce di suo padre, che lo aveva identificato, sin da piccolo, come il suo successore. Anche Osama – racconta – non aveva un rapporto idilliaco con i suoi genitori. “Il loro divorzio ha rappresentato una perdita, ha sentito la sua mancanza di status, ha sofferto sinceramente della mancanza di amore e cura personale. So come si sentiva – aggiunge il pittore – Sono uno dei suoi 20 bambini. La sua infanzia è stata all’insegna del rifiuto della modernità e dalle crescenti minacce alla sicurezza, prima in Arabia Saudita, poi negli Usa e in Afghanistan. “Siamo stati tenuti come prigionieri nelle nostre case – afferma – Non ci era permesso giocare fuori, nemmeno nel nostro giardino. I miei fratelli e io passavamo molte lunghe ore a guardare fuori dalle finestre degli appartamenti, desiderando di unirci ai bambini che vedevamo andare in bicicletta”. Per questo motivo i dipinti di Omar hanno all’incirca le stesse dimensioni proprio delle finestre della sua giovinezza. L’unico posto in cui Omar ha sperimentato la libertà è stato nella fattoria di famiglia, a sud di Jeddah – poi trasformata in un campo d’addestramento man mano che Osama assurgeva al ruolo di leader della Jhiad: tutti i giocattoli erano vietati, ma i bambini potevano divertirsi con capre, gazzelle e gli immancabili cavalli.

Il suo pennello traccia spesso i contorni del deserto e le ombre delle guerre – “Ricordo di non aver mai visto mio padre lontano dal suo Kalashnikov” -, ma anche dei viaggi. Torna spesso anche in Egitto, con un fiume color dei lapislazzuli con schizzi di vernice bianca: “Il riflesso della luna e del cielo stellato nel Nilo è stato uno dei panorami più belli che abbia mai visto”. I lutti, l’allontanamento di Osama – a cui ha detto di non voler seguire le sue orme – e il conseguente rifiuto sono una ferita ancora aperta, così come gli eventi della mattina dell’11 settembre 2001: “Dopo aver ascoltato un‘audiocassetta di mio padre che si prendevano il merito degli attacchi alle Torri Gemelle, ho affrontato la realtà – dice Omar – Ero un uomo. Ho dovuto conviverci. Anche se non sono come i cowboy del mio dipinto“.

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