“Non importa se in Spagna o in un altro Paese, andrei dovunque pur di lavorare e costruirmi una vita”. L’unica cosa che conta è attraversare lo stretto di Gibilterra per i ragazzi come Ibrahim (nome di fantasia), minorenni di nazionalità marocchina che da mesi vivono al limite della legalità nella città di Ceuta. Sono tecnicamente in Europa, perché l’enclave costiera è a tutti gli effetti parte del territorio spagnolo. E sono formalmente liberi, ma da quei 18 chilometri quadrati non possono muoversi: il loro status di minori migranti non accompagnati (Mena) non li autorizza a raggiungere la penisola. Diversi di loro vivono per strada, fuggiti dai centri di accoglienza e timorosi di essere rimpatriati.

Centinaia di ragazzi sotto i 18 anni hanno attraversato la frontiera fra Ceuta e il Marocco, nei giorni di maggio in cui varcarono il confine oltre 9mila persone. Il 17 del mese Ibrahim si trovava con altri coetanei sulla strada che porta all’enclave spagnola. “Un uomo in divisa ci ha suggerito di entrare, dicendo che ci avrebbero accolto in un centro, istruito e poi trovato un lavoro. Allora ho corso a perdifiato fino alla frontiera”, racconta il giovane al Fatto.it. In quegli attimi concitati le autorità spagnole provarono, senza successo, a contenere gli ingressi. «I militari marocchini ci incoraggiavano ad andare, quelli spagnoli ci respingevano per farci tornare indietro. Ma dopo pochi minuti hanno dovuto aprire».

Le sue speranze, però, sono state presto deluse. Mentre i cittadini marocchini maggiorenni venivano immediatamente rimpatriati, i minori sono stati ospitati in strutture locali. Per molti di loro era una situazione assimilabile alla reclusione: “Mi sentivo bloccato: nessun lavoro, nessuna formazione, nessuna possibilità concreta”. Ibrahim dice di aver lasciato il Marocco per il aiutare la sua famiglia, che versa in condizioni di estrema indigenza: il padre e il fratello sono disoccupati, la madre è affetta da una grave malattia e, completamente priva di assistenza sanitaria, necessita di cure molto costose. Ad agosto ha deciso di lasciare il centro, rinunciando a un tetto sopra la testa per paura di essere riportato nel suo Paese. Le autorità di Ceuta avevano cominciato a trasferire i minori in Marocco, caricandone 15 al giorno su piccoli autobus. La pratica, descritta come un ritorno volontario assistito dal ministro dell’Interno spagnolo, è stata aspramente criticata dalle Ong locali e dall’Onu e dopo pochi giorni sospesa in via cautelare da un tribunale locale. Secondo la giustizia spagnola, ogni caso va analizzato singolarmente per accertare quale sia il reale interesse del minore. Il ministero ha bloccato le operazioni in attesa di una pronuncia definitiva da parte dell’Audiencia Nacional.

Come molti altri, però, Ibrahim non si fida: pur avendo presentato regolare richiesta di asilo, resta per le strade e spera di potersi imbarcare. Nella stessa condizione vivono tra i 100 e i 200 minori, secondo le stime delle organizzazioni locali. Si arrangiano come possono, con le associazioni umanitarie che ogni tanto li riforniscono di vestiti e generi alimentari. Nei giorni scorsi la polizia di Ceuta ha condotto “operazioni di recupero” di decine di minori nella zona portuale della città. “Ma spesso i ragazzi tornano per strada, perché non sono detenuti e quindi non possono essere obbligati a risiedere in un centro”, spiega al Fatto.it un operatore dell’organizzazione Digmun, che si occupa di accoglienza di donne e bambini a Ceuta. “Inoltre le strutture sono piene e la situazione è problematica, con casi di bullismo, furti, aggressioni, e litigi provocati dalla convivenza in spazi ridotti”. Secondo la sua esperienza, in questi centri ci sono anche ragazzi maggiorenni, che mentono sulla propria età per avere qualche possibilità in più di restare.

Puntano sul fatto che la legislazione spagnola in tema di immigrazione irregolare sia molto più morbida con i minori non accompagnati rispetto che con il resto dei migranti. Ma perché una richiesta di asilo abbia successo è necessario “giocarsela bene nell’audizione”, dice l’operatore di Digmun. L’alto tasso di disoccupazione, la mancanza di scolarizzazione o le condizioni di vita insostenibili possono essere motivi sufficienti per ottenere la protezione, a patto che il minore sappia spiegarli in maniera efficace al giudice. Per questo una strategia comune è quella di inoltrare a prescindere una richiesta di asilo, che dal momento in cui comincia a essere valutata, consente di spostarsi per tutta la Spagna in attesa della risposta: un periodo compreso tra sei mesi e un anno, più eventuali ricorsi. Una condizione temporanea e precaria, ma per i ragazzi come Ibrahim è molto meglio che restare nel limbo di Ceuta.

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