Faisal (il nome è di fantasia) è arrivato in Italia dall’Afghanistan attaccato sotto il cassone di un tir nel 2009, quando aveva appena 16 anni. Oggi di anni ne ha 28 e vive ad Ancona dove gestisce un negozio di frutta. La sua preoccupazione più grande adesso sono le sorti delle sorelle minori, nascoste come topi in una casa alla periferia di Kabul in attesa che qualcuno arrivi a salvarle e a portarle fuori dal Paese. “L’ultima volta che ho parlato con loro risale al 16 agosto scorso – racconta a Ilfattoquotidiano.it – erano terrorizzate. La più piccola mi ha detto una frase che non potrò mai dimenticare e che non mi fa dormire: ‘Con me porto sempre un paio di forbici. Non esiterò a usarle per togliermi la vita se i Talebani venissero a prenderci. Preferisco morire che finire nelle loro mani’. Capisce cosa significa per me? Loro sono tutto ciò che ho in Afghanistan, la mia famiglia, il futuro. Io sono qui in Europa e non posso fare nulla per loro. Temo il peggio, se dovesse succedere loro qualcosa di terribile non me lo perdonerei”.

Faisal è originario della provincia di Vardak, a ovest di Kabul e confinante con la capitale. I genitori sono morti dopo la sua partenza per l’Europa, quando ormai si era stabilito in Italia, nelle Marche, Macerata prima e poi Ancona. Della famiglia d’origine non gli restano che le due sorelle, di 22 e 25 anni. Entrambe hanno scelto la via degli studi universitari e il desiderio di diventare dottoresse. Seguire la carriera professionale in Afghanistan, diventato un Emirato Islamico, significa sacrificare tutto il resto. Donne giovani e in carriera e soprattutto senza una famiglia e un marito: “Questo le mette ancora di più in pericolo – aggiunge Faisal, costretto più volte a interrompere il dialogo per l’emozione -, sono potenziali prede per i Talebani che non concepiscono come mai giovani donne come loro non siano sposate. La più piccola vuole fare la ginecologa, stava studiando duramente, l’altra ha terminato gli studi ed era ai primi passi della professione di medico. Tanti sforzi, sacrifici e la passione di un lavoro che amano. Tutto inutile. Da quando hanno lasciato la casa di Vardak, tra il 16 e il 17 agosto scorsi, io non ho più parlato con loro. Le persone con cui sono in contatto le hanno aiutate a nascondersi e mi aggiornano quando possono sulle loro condizioni, ma io non mi posso fidare di chi non conosco”. Una frustrazione devastante resa ancora più concreta dalla fine dei voli internazionali per portare via gli afghani che hanno collaborato con i contingenti e con le autorità diplomatiche. Per tutti gli altri c’è un enorme punto interrogativo e un futuro incerto.

Ma a rendere ancora più pericolosa la permanenza delle sorelle di Faisal nel loro Paese natale è il fatto che la loro famiglia è di etnia hazara: “Per noi in Afghanistan non c’è più speranza con il ritorno dei Talebani, altro motivo di preoccupazione per le mie sorelle. Mi giungono notizie durissime dal mio Paese, la nuova repressione vede gli Hazara nel centro del mirino. Non abbiamo mai fatto del male a nessuno, cerchiamo di convivere con tutti, ma l’etnia pashtun ci vede come il male assoluto”.

Gli Hazara sono di religione sciita e rappresentano circa il 10% della popolazione afghana, la terza etnia dopo quella dominante dei pashtun, appunto, e dei tagiki. Più volte soggetti a vere e proprie pulizie etniche nel corso della storia, durante il primo governo dei Talebani in Afghanistan, dal 1996 alla fine del 2001, gli Hazara sono stati bersaglio di vere e proprie purghe sanguinose. Oltre ai motivi religiosi (a parte loro, il resto della popolazione è sunnita), dominanti rispetto al resto, gli hazara pagano anche per i loro tratti fisici distintivi, in particolare il naso e gli occhi a mandorla che li rendono simili ai mongoli.

Anche durante i governi Karzai e Ghani, sostenuti dall’occidente negli ultimi 20 anni, gli atti violenti nei confronti della popolazione hazara non sono mai cessati. Da qui la scelta di Faisal, giovanissimo all’epoca, di mettersi in viaggio verso l’Europa: “Sono partito quando avevo appena compiuto 16 anni – ricorda -, in Afghanistan non c’era futuro per me. In tanti, ragazzi giovani come me, partivano e l’ho fatto anch’io. Ho camminato a piedi e mi sono nascosto a bordo di mezzi di fortuna per tutto il tragitto fino all’Italia. Pakistan, Iran, Turchia, Grecia e poi al porto di Patrasso mi sono agganciato sotto un tir che si stava imbarcando su un traghetto diretto a Bari. Tanti afghani sono morti con quel sistema, disarcionati e poi schiacciati dalle ruote dei camion. Io ce l’ho fatta e adesso la mia vita, sebbene da rifugiato, è migliorata grazie al lavoro. Nel frattempo mi sono sposato e sono diventato padre di due splendidi figli, ma il mio pensiero adesso è solo per le mie adorate sorelle. Anche se lontani, ci sentivamo sempre e io le aiutavo negli studi grazie al mio lavoro. Senza di loro io non posso vivere sereno”.

Faisal ha preferito non rivelare la sua vera identità per un motivo ben preciso. Lo spiega Donatella Linguiti, responsabile dell’associazione Amad in prima linea per la tutela dei rifugiati: “Di recente, all’indomani del ritorno degli Studenti Coranici, un altro rifugiato afghano residente ad Ancona ha rilasciato un’intervista in video, apparsa anche su alcuni articoli di stampa e online. Pochi giorni dopo – spiega – alcuni funzionari di Kabul sono andati a bussare a casa della sua famiglia e adesso c’è il timore che possano sorgere delle conseguenze. Evidentemente i Talebani sono davvero molto più attenti a cosa accade in rete. La storia di Faisal è davvero drammatica, da quando l’altro giorno è venuto da noi in sede non smette di piangere e disperarsi per la sorte delle sorelle. Da inizio agosto, soprattutto dal 15 in avanti, siamo stati travolti da un’ondata di emozioni difficili da reggere. Sono almeno una cinquantina gli afghani di Ancona che stanno cercando di aiutare le loro famiglie a mettersi in salvo. Oltre ai collaboratori degli occidentali (la maggior parte dei quali è stata messa in salvo coi voli umanitari, ndr.), i Talebani se la prenderanno anche con chi ha parenti stretti all’estero. Tirarli fuori da quell’inferno sarà un’impresa”.

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