In questo weekend di chiusura delle Olimpiadi, possiamo iniziare a tirare le somme. Giochi leggendari per noi italiani, con record di medaglie e gli ori spettacolari, tra gli altri, nella staffetta 4×100 e nei mitici 100 metri. Ma non credo di sbagliarmi se dico che uno dei momenti di maggior fomento sportivo sia stato l’oro ex aequo nel salto in alto, ottenuto dopo un accordo tra l’italiano Gianmarco Tamberi e il qatariota Mutaz Essa Barshim. Abbiamo in mente tutti le immagini della stretta di mano e dell’abbraccio atti a suggellare la parità, quando il tecnico preposto a spiegare ai due atleti le condizioni dello spareggio stava ancora parlando.

Ebbene, su un quotidiano spagnolo è apparso un pezzo, dal titolo esplicito “Spareggio, per favore”, contrario all’accordo. Il sottotitolo parla chiaro: “Mi sembra osceno che si ipotizzi la possibilità di non continuare a gareggiare nel salto in alto e che si concordi un pareggio per far vincere l’oro a due atleti”.

A prima vista anche a me era sembrato strano questo accordicchio verbale stretto in quattro e quattr’otto sull’onda dell’entusiasmo, della fatica e della tensione. Dal divano di casa ho pensato: “Io avrei continuato a gareggiare”. Ma al di là della figuraccia che mi sarebbe toccata in mondovisione – l’egoista che non si accontenta – la sfiga e l’ingordigia mi avrebbero certamente fatto arrivare secondo. E lì, altra figuraccia da tracotante cornuto e mazziato.

In realtà, a farmi pensare così era appunto il divano di casa. Troppo comodo parlare da questa parte dello schermo tv, lontano dal contesto e soprattutto da qualsiasi esperienza sportiva. Che ne sappiamo dei sacrifici e della lotta, che ne capiamo di quanto possa valere – economicamente, d’accordo, ma non solo – un oro olimpico, specie se come Tamberi non si è potuto partecipare alle Olimpiadi precedenti per un infortunio. E poi col Covid che ha posticipato il tutto. Che ne sappiamo di cosa vuol dire ripetere lo stesso identico gesto alla ricerca del millimetro in più per settimane, mesi e anni, e poi giocarsi tutto in un’ora o due di gara.

A Roma credo si direbbe stacce: se il regolamento lo consente, perché non approfittarne? Tanto più che, se mi è concessa la possibilità, evidentemente ho le carte in regola per poter decidere: sono il migliore, solo che non sono il solo.

E poi, parliamoci chiaro: questo accordo è meraviglioso. Parla di parità, di cultura dello sport, di competizione e di condivisione. E anche di una rivoluzione: basta coi ragionamenti da “si è sempre fatto così”, non bisogna arrivare primi per vincere. Questi due giovani ci hanno dimostrato quanto valgono, sia sulla pista come atleti sia fuori come persone.

Uno dei commenti su Facebook al lancio dell’articolo recita così: “Che strana la generazione del cemento, bloccata sugli ideali del secolo scorso. Noi giovani cerchiamo un cambiamento, lo generiamo giorno dopo giorno: queste Olimpiadi ne sono la prova. Lo sport è sempre di squadra, anche quando le prove sono individuali. I nostri risultati li dobbiamo a noi, ma anche a coloro che ci permettono di vederci nel loro svolgimento e ci aiutano a migliorare. Perché preferiamo un futuro uniti insieme su un podio, che lottare per una differenza di un millimetro contro qualcuno arrivato alla miglior prestazione in concomitanza con te senza pianificarlo. Ecco dove sta la vera essenza e bellezza dell’Olimpismo”. E non potrei essere più d’accordo.

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