VENEZIA – Il controllato controllava il controllore. In base a questo assunto, dimostrato da una raffica di custodie cautelari in carcere, impiegò appena nove giorni il consiglio dei ministri diretto da Matteo Renzi, nel 2014, a decretare la morte del Magistrato alle Acque di Venezia. Il 4 giugno c’era stata la grande retata che aveva portato in carcere funzionari, politici, imprenditori e uomini dello Stato coinvolti nello scandalo Mose. Il 13 giugno le funzioni della struttura furono trasferite all’Ufficio 4 “Salvaguardia di Venezia del Magistrato alle Acque – Opere marittime per il Veneto” del Provveditorato interregionale per le opere pubbliche per il Veneto, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, sempre alle dipendenze del Ministero delle Infrastrutture. Adesso il Magistrato alle Acque rinasce, in base all’annuncio dato dal governo Draghi, contestualmente con il decreto che mette al bando le Grandi Navi da San Marco e dal Canale della Giudecca.

In realtà il governo Renzi aveva promesso anche il trasferimento del personale e delle competenze alla Città Metropolitana di Venezia, il che non è mai avvenuto. Lo Stato se ne è tenuto il controllo. La mossa governativa fu comunque rapida anche perché alle spalle c’era l’Autorità Nazionale Anticorruzione di Raffaele Cantone, impegnata a far fronte a uno dei più gravi scandali della storia repubblicana.

Sette anni dopo in qualche modo si torna all’antico, ma è una storia che merita di essere ripercorsa, perché indicativa di quanto la disponibilità di risorse pubbliche faccia crescere l’appetito. Il governo ha annunciato anche che i soldi per finire il Mose incompiuto ci sono e quindi è in arrivo una partita da oltre 500 milioni di euro, oltre alle future spese di manutenzione. Il Magistrato costituisce un’eredità di una serie di strutture che la Repubblica Serenissima aveva costituito a partire dal Cinquecento per gestire il suo bene più prezioso, l’acqua. Nello Stato italiano è stata ricreata nel 1907, e quindi al momento della cessazione aveva già compiuto un secolo di vita.

L’ordinanza cautelare del 2014 ruotava attorno alla figura di Giovanni Mazzacurati, ingegnere, padre-padrone del progetto delle dighe mobili per Venezia e gran ciambellano delle tangenti. Mazzacurati era il presidente del Consorzio Venezia Nuova, concessionario dello Stato per realizzare il Mose. Il Magistrato avrebbe quindi dovuto controllare le attività del Consorzio, in nome del Ministero delle Infrastrutture, che elargiva i finanziamenti. Gli inquirenti scoprirono che l’ingegnere aveva costruito un meccanismo lautamente pagato, con cui in realtà tirava i fili dei controlli sulla attività del Consorzio.

Due i magistrati alle acque arrestati, Patrizio Cuccioletta e Maria Giovanna Piva. Il primo, romano, 77 anni, è uno dei personaggi chiave, che ha ricoperto quel ruolo due volte. La prima dal 1999 al 2001, ma fu poi allontanato dal ministro Nerio Nesi dopo una visita ispettiva sulle sue presenze in sede, considerate un po’ sporadiche. Era stato richiamato dal 2008 al 2011, epoca cruciale delle tangenti. Nell’intervallo, dal 2001 al 2008 il posto era stato ricoperto dalla Piva.

Secondo quanto ha ricostruito l’inchiesta, era stato Mazzacurati ad offrire il posto a Cuccioletta. “Una sera a cena da soli al ristorante La Madonna, a Venezia, Mazzacurati mi disse che lui aveva pensato a una ricompensa annua di circa 200-250mila euro e un premio finale che mi disse che non aveva ancora definito, ma dell’importo di circa un milione e mezzo, due milioni. Non le nascondo che trasecolai per l’enormità della somma”. Così aveva confessato a uno dei pm dell’inchiesta, ottenendo i domiciliari dopo appena due settimane e accordandosi sei mesi dopo per un patteggiamento a due anni di reclusione. Mazzacurati, insomma, gli aveva offerto nomina e stipendio extra. All’epoca lui guadagnava come funzionario dello Stato circa 6 mila euro al mese.

Cuccioletta fu accusato di una lunga serie di corruzioni: 400 mila euro all’anno, una buonuscita di 500 mila euro bonificati su un conto svizzero, un contratto di lavoro per la figlia, una consulenza professionale per il fratello, pagamenti di spese per ristoranti, alberghi, aerei e vacanze. Con il patteggiamento gli confiscarono 750 mila euro, poi è arrivata anche una condanna della Corte dei Conti.

Il canovaccio disegnato dall’accusa era simile per Maria Giovanna Piva, anche se l’epilogo giudiziario fu un po’ diverso. Era accusata di aver percepito somme annuali, oltre al pagamento di un collaudo tecnico dell’ospedale di Mestre. In carcere restò tre settimane, poi andò ai domiciliari. Affrontò il processo, negando tutto. In parte venne assolta, in parte le accuse furono dichiarate prescritte. Lo spaccato che uscì dall’inchiesta era allucinante: le pratiche del Magistrato alle Acque erano preparate e curate dai dipendenti del Consorzio Venezia Nuova, che avevano perfino alcuni computer dedicati solo a quello scopo. Un meccanismo perfetto per non avere mai controlli dallo Stato.

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