di Giuseppe Criaco

Senza dubbio uno dei mali che più affligge questo paese è la “cecità” politica e, purtroppo, sempre più spesso, quella morale. Di cecità morale ne parla Zygmunt Bauman in un suo esemplare saggio, mentre quella politica è sotto gli occhi di tutti e non servono certo le mie parole a mutarne i contorni oppure a disvelarne le sembianze.

Quello che oggi in questo mio contributo vorrei, però, sezionare sono le motivazioni più profonde che rendono questo terribile handicap fisico un incredibile, quanto evidente, tratto di molti di noi quando si tratta di colpire il nemico “immaginario”. Intendendo per nemico immaginario tutto ciò che è esterno da noi, ma non ci è ignoto; il nemico immaginario, talvolta, può essere la parte che di noi rifiutiamo, con i nostri difetti, le nostre debolezze, i nostri limiti personali. Caratteristiche che di fatto ci rendono unici e perciò preziosi, ma che diventano impossibili oggi da sopportare. Nell’era del successo sempre e comunque, della notorietà “spazzatura” costruita su apparizioni vacue, e per questo effimera e vuota.

E allora la nostra mente, pur di escludere, di abbattere quel nemico “immaginario”, chiude gli occhi a se stessa e anche a noi, rendendoci ciechi, oscurando e ottenebrando la nostra stessa razionalità. Sottraendo così la nostra esistenza alla guida più alta di cui l’uomo è dotato dalla notte dei tempi, “la ragione dal respiro universale”. Le nostre motivazioni allora divengono oscure, il linguaggio si semplifica sempre più perché non più rivolto all’elevazione e al confronto, ma servo dei “like” e del facile consenso dei social network. Assoggettando così la nostra parte migliore ad una indistinta comunità virtuale. In poche parole ci facciamo cannibalizzare dall’illusione di una falsa notorietà, alimentando così quella cosa presente in ciascuno di noi, “dentro di noi, una cosa che non ha nome, e quella cosa è (anche) ciò che siamo” (Cecità, José Saramago).

Nasce e prolifera così la società dell’odio, del “dalli all’untore” di manzoniana memoria. Una cecità dell’anima che ha prodotto, dopo anni di oscuro e silente contagio, una non peggiore pandemia di quella proveniente da Oriente. Una condizione universale che ha valicato i confini “social” per tracimare, impadronendosene, nelle nostre vite, e che si coglie oggi ad ogni dibattito televisivo, in ogni piazza che si riempie, sulle colonne di molti quotidiani. Un oscurantismo “cieco” che trasuda intolleranza, rabbia, rancore (non solo sociale, ma troppo spesso personale e umano). E di fronte a tutto questo la politica non solo non ha saputo fare argine, ma ha cavalcato e seguito le masse affette “da questa terribile patologia”. Ciechi sì, ma in nome del consenso e del potere.

Così la nuova classe dirigente italiana, la nuova leadership di questo paese, incapace di condurle, le masse, come invece sarebbe stato compito di una politica con la P maiuscola, dicevamo, per quanto assurdo ci possa apparire, questa politica è andata “al seguito” delle masse. Cieche. Incapaci di vedere e riconoscere le ragioni dell'”altro”.

E come in Cecità, il capolavoro del premio Nobel José Saramago, non si fatica oggi ad individuare questa graduale ma costante discesa verso una degenerazione, che riguarda tutti noi. E allora si rimane ciechi di fronte alle intolleranze omofobe, ciechi di fronte alle decine di femminicidi che lastricano di sangue questo Paese. Ciechi di fronte alla violenza spiccia che affligge le nostre nuove generazioni. E nemmeno le istituzioni e i suoi rappresentanti ormai ne sono immuni, alla luce della barbarie e delle violenze che emergono dalle indagini sulla Casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere.

Una condizione purtroppo da cui si fa sempre più fatica ad uscire, un cancro dell’anima del quale dobbiamo esserne consapevoli. Tutti. Per intraprendere un percorso di cura e guarigione civile e per dare una nuova “visione” soprattutto culturale che dia un senso a questo Paese.

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