Sono sempre lì. Che si tratti di Mondiali o di Europei cambia poco. Riempiono lo schermo del televisore all’improvviso, durante una piccola pausa di gioco. Le telecamere li scovano sugli spalti, indugiano su di loro per qualche secondo. Giusto il tempo di mostrare i loro costumi colorati, di soffermarsi sui loro sorrisi, di far nascere qualche interrogativo nella testa dei telespettatori. E poi via di nuovo. Ancora sul campo, ancora sulla partita. Li abbiamo visti anche in questo campionato continentale al tempo del Covid-19. Tifosi italiani vestiti da pizza. Francesi da moschettieri. Spagnoli da toreri. Tedeschi, danesi e svedesi da vichinghi. Inglesi da crociati. Olandesi da fetta di edammer e svizzeri da groviera. Sono costumi che richiamano simboli ormai fuori dal tempo. Anzi, sono travestimenti che eternano uno stereotipo. Ma con un rovesciamento di prospettiva.

Quegli elementi hanno finito con il dilatare la loro portata fino a identificare, spesso con una connotazione negativa, un’intera popolazione. Italiano pizza, spaghetti, mandolino. Sono simboli da maneggiare con cura, che sono considerati offensivi se utilizzati dagli altri ma che vengono rivendicati con fierezza durante le manifestazioni sportive. Una contraddizione. O forse no. “In un contesto come quello degli Europei stiamo rivendicando un’affiliazione – ha spietato al fatto.it Arianna Montanari, già professoressa di Sociologia Politica all’Università di Roma La Sapienza – ci sentiamo protetti da una comunità e rappresentati da una squadra. Pensiamo agli Orazi e Curiazi, che combattevano per la comunità di Roma. Tutti all’epoca si identificavano con loro. Il senso di appartenenza deve essere proiettato su qualcuno o su qualcosa. E oggi non ci sono più i guerrieri, ma i calciatori”. Il campo da gioco al posto di quello di battaglia, i tiri da fuori area al posto dei colpi d’artiglieria. Poco a poco il calcio ha smesso di essere semplicemente sport. Si è trasformato in una fabbrica di identità nazionali.

La storia della Stella Rossa e dell’ex Jugoslavia sono casi eclatanti di una tendenza inquietante. La fine della prima Guerra Mondiale ha intrappolato i popoli del Vecchio Continente in una serie di stereotipi. Gli italiani sono diventati improvvisamente traditori, ambigui, inaffidabili. I tedeschi duri, violenti, disciplinati. Tutti quanti. Ora senza guerre da combattere il pallone si è trasformato in uno strumento di creazione ed espressione della specificità nazionale. Proprio come la letteratura, i film, le serie tv. “Sono convinto che un Paese giochi a calcio come vive – ha scritto tempo fa Mario Sconcerti – Se una nazione è felice, gioca un calcio felice. Una nazione triste gioca un calcio triste e spesso finisce per involversi. È una regola che gira nell’aria, non è una regola esatta. Ci sono decine di eccezioni, ma ci sono anche molte dimostrazioni che l’assunto è quasi aritmetico”. Concetti astratti che hanno però un’applicazione pratica. “Questi stereotipi nazionali hanno un ruolo sempre maggiore – ha aggiungo la Montanari – perché indirizzano il comportamento degli individui. Spariscono con la conoscenza personale, con il riconoscimento della specificità e individualità di un soggetto. Mentre più si ragiona in termini generici, più c’è bisogno di capire come si comportano gli altri, più si attribuiscono agli individui delle qualità e comportamenti specifici con i quali si pensa di potersi rapportare. Quando un soggetto non è in grado di farlo può sbagliare un approccio”.

Nel suo libro “Stereotipi Nazionali – Modelli di comportamento e Relazioni in Europa” (uscito anni fa per Liguori Editore), la professoressa spiega come tutte le relazioni fra le popolazioni del Vecchio Continente siano state il frutto del continuo rapportarsi con con questi cliché. Conoscenze epidermiche che sembravano confermar la frase di Ennio Flaiano: “Se i popoli si conoscessero meglio si odierebbero di più”. La cultura di massa ha ingigantito i luoghi comuni. E li ha cristallizzati. “I media hanno portato a un’amplificazione di questa tendenza – ha detto la Montanari – ormai tutti gli sceneggiati e le telenovelas sono prodotti in serie e ogni ruolo è fatto per incarnare uno stereotipo. Una situazione interessante è quella statunitense, dove negli ultimi 20 anni si è assistito a uno scambio degli stereotipi. Spesso i giudici sono neri, in alcuni casi si vedono bambini neri con la tata bianca, nei polizieschi c’è sempre sempre un asiatico o un latino”. Il motivo è piuttosto intuibile. Rigirare un cliché per mandare in pezzi il luogo comune di partenza. “Si prende uno stereotipo che non c’è nella società ma che si spera ci sia. In questo modo si spera di ottenere un effetto pratico, serve a cambiare la realtà che si vive nell’immaginario. E l’immaginario influisce sul reale. Anzi, l’immaginario è la base per costruire la realtà. Basta pensare a quante volte abbiamo paura di un qualcosa che non esisteva, ma richiamava un pericolo nel nostro immaginario”.

Ma una volta chiarita la potenza simbolica dei cliché, resta da sciogliere la domanda iniziale: perché durante gli Europei vengono ostentati tutti quegli stereotipi che in mano agli altri diventano offensivi? “In questa porzione di tifo c’è una tendenza da social network – spiega Mattia Diletti, professore di Scienza Politica nel dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale de La Sapienza – c’è chi ha voglia di protagonismo e chi mascherandosi si diverte a giocare con i luoghi comuni. In questo modo ci si costruisce un proprio spazio su Instagram, si finisce nelle fotogallery. C’è un depotenziamento del modello ultrà”. Ma non solo. Giocare con uno stereotipo vuol dire perpetuarlo, ma forse anche annacquarne il valore. “Mi sembra che ci sia una sorta di esorcismo in questo uso dei luoghi comuni – continua Diletti – si depotenzia il messaggio negativo che gli altri vogliono costruirci sopra. Ormai anche con maestria utilizzato questi cliché per il nostro marketing territoriale. Bisogna capire che gli stereotipi sono un pendolo, vengono utilizzati con efficacia anche da chi li subisce. Basta vedere Italia-Svizzera, dove c’è stata una continua rielaborazione di una storia complessa, dove c’era il grande tema della rivalsa degli italiani all’estero”.

Questi Europei, però, hanno introdotto anche un altro tema. Una questione collaterale ma collegata. Il mondo globalizzato si è ritrovato improvvisamente frammentato. I confini sono regrediti: dal Continente ai singoli stati. E poi ancora più indietro fino alle città, e ai propri appartamenti. L’estero e l’esterno sono stati cancellati con un colpo di spugna. Una chiusura ermetica che ha aumentato le differenze fra Paesi, ognuno alle prese con la gestione interna del virus. La generazione più abituata a viaggiare, e quindi a infrangere gli stereotipi, si è ritrovata imprigionata dentro linee di confine, si è riscoperta introflessa. Chi pensava che questo potesse essere l’inizio di un nuovo spirito nazionalista è rimasto deluso. Ma solo parzialmente. “Mi ha colpito molto l’Ungheria con il suo stadio pieno – afferma Diletti – è stata una dimostrazione molto muscolare di nazionalismo. Per il resto però mi sembra che si sia affermato un principio comunitario, si è capito che abbiamo un destino comune, con alcune grandi questioni da risolvere. Prima c’è il Covid, ma poi bisognerà affrontare il cambiamento climatico“. Insomma, stereotipi nazionali e nazionalismo sembrano procedere su binari paralleli. Almeno nel calcio. Il rischio che il populismo politico fagociti quello sportivo è ancora lontano. “Il tentativo di commistione è chiaro – ha detto Marco Bruno, sociologo dei processi culturali e della comunicazione e professore alla Sapienza di Roma – ma il pericolo non è così ineluttabile. Neanche la creazione del partito di Berlusconi ha impedito ai tifosi di urlare Forza Italia“. La sfida dunque si gioca fino all’ultimo gol. Anzi, fino all’ultimo stereotipo.

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