“Chiederemo di mettere fine a questa penalizzazione ombra, a questo silenziare, ricattare, bandire e cancellare ciò che voi conoscete benissimo”. Donald Trump prosegue la sua guerra contro Twitter, Facebook, Google e Youtube. E aggiunge un tassello che va oltre le dichiarazioni di ostilità. Dal suo golf club di Bedminster in New Jersey, dove trascorre l’estate, il tycoon si è infatti messo a capo di una class action contro i tre colossi del web (Youtube è di Google) e i loro amministratori delegati, accusandoli di silenziare le voci conservatrici e dichiarandosi vittima di censura. Una crociata giudiziaria contro i social che lo hanno bandito invocando la violazione del primo emendamento della costituzione. A loro chiederà il ripristino degli account pretendendo un risarcimento danni, richieste che saranno formulate in una corte federale della Florida, diventato il suo ‘home state’ dopo che New York gli ha voltato le spalle.

L’ex capo della Casa Bianca è stato cacciato dalle tre principali piattaforme per aver diffuso le sue false accuse di brogli elettorali e per aver incitato i suoi fan ad assaltare il Congresso il 6 gennaio scorso per ribaltare l’esito delle elezioni. I giganti della Silicon Valley hanno giustificato il loro bando con il timore che Trump potrebbe istigare altre violenze.

Da allora il tycoon si è ritrovato così senza il megafono dei social, sua principale arma elettorale e canale di comunicazione diretto col ‘popolò del ‘Make America great again‘. Un duro colpo che rischia di compromettere le sue ambizioni di restare sulla scena politica, mantenendo la presa sul partito repubblicano, pilotando le elezioni di Midterm nel 2022 e ricandidandosi forse alle presidenziali nel 2024.

La class action non sembra però avere grandi chance di successo. In base alla sezione 230 della Communications Decency Act del 1996, le società internet sono esentate dalla responsabilità dei contenuti postati da terzi e sono autorizzate a moderare i loro servizi rimuovendo i post che violano gli standard da esse stesse fissati, dalla violenza al razzismo.

Trump ed altri conservatori accusano Twitter, Facebook e altri social di aver abusato di tale “protezione” e chiedono di togliere questa immunità o almeno di subordinarla a condizioni fissate dal governo. I repubblicani tuttavia hanno già perso per il momento una prima battaglia proprio in Florida, dove un giudice federale ha bloccato temporaneamente una nuova legge statale che regola come i social media possono moderare i contenuti, affermando che il provvedimento viola il primo emendamento sulla libertà di espressione. La legge prevedeva multe sino a 250 mila dollari per le piattaforme online che sospendono i politici e autorizzava i cittadini della Florida che si ritengono “trattati in modo ingiusto” e danneggiati finanziariamente a fare causa alle società tech.

Intanto Trump è messo in imbarazzo da nuove rivelazioni: durante una visita in Europa nel 2018 in occasione del centenario della fine della Prima Guerra Mondiale, l’allora presidente disse al suo capo di gabinetto John Kelly che Hitler aveva fatto tante cose buone, secondo il libro, in uscita il 13 luglio, del giornalista Michael Bender, ‘Frankly, We Did Win This Election: The Inside Story of How Trump Lost’. Kelly rispose che si sbagliava ma lui rimase sulle sue posizioni sostenendo che negli anni ’30 ci fu una ripresa economica della Germania sotto Hitler. “Non si può dire nulla a favore di Adolf Hitler“, replicò inutilmente Kelly.

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