Mario Draghi ha delineato il perimetro formale, la libertà del Parlamento, la laicità dello Stato, ma i nodi sostanziali della vicenda restano tutti. Che a nessuno venga in mente di paragonare il pasticcio creatosi intorno al disegno di legge Zan con le grandi battaglie per i diritti civili degli anni Settanta. Allora il confine era netto tra chi voleva difendere le leggi sul divorzio e l’aborto e chi invece voleva cancellarle. Allora il meglio della cultura laica e di quella cattolica marciavano fianco a fianco combattendo il fronte clerico-fascista. Allora una grande massa di popolo si contrappose al tentativo del Vaticano e della Cei di imporre alla società italiana la propria visione conservatrice e repressiva della religione.

Oggi il quadro è diverso. Il ddl Zan si è impantanato e ha provocato l’intervento sgradevole del Vaticano per ragioni di debolezza interna. Per il sovrapporsi dell’obiettivo giustissimo di colpire l’omofobia e la transfobia con il tentativo di imporre una dottrina – la cosiddetta gender theory – come ideologia di stato.

I talk show televisivi in questa stagione non aiutano a fare chiarezza. Ripropongono in maniera monotona chi è totalmente a favore e chi è totalmente contrario al disegno di legge. Non viene mai dato spazio ad un’altra componente del pensiero, che pure ha le sue radici nella laicità e nella riflessione su femminismo e su omosessualità. Come mai personalità come Cristina Gramolini, Cristina Comencini, Aurelio Mancuso vengono messe in ombra?

Il ddl Zan non può diventare un feticcio. Non si comprende perché venga censurata la posizione di chi vuole una legge che combatta la violenza e l’incitazione alla violenza contro omosessuali e trans, ma chiede una diversa formulazione del testo legislativo. Abbiamo votato in milioni per impedire che la vita familiare e la procreazione fossero sottoposte alla dittatura di una dottrina religiosa e non l’abbiamo fatto per sottostare ad una ideologia di stato.

Non si tratta, secondo me, solo di tutelare in maniera inequivocabile la libertà di parola. Il punto cruciale del groviglio politico che si è creato per me consiste nella formulazione dell’articolo 1 laddove sancisce che “…per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione”. E’ questo il punto in discussione. La pretesa del disegno di legge di stabilire che l’identità di genere – al di là del suo contenuto sociale e biologico – sia affidato totalmente ad una manifestazione soggettiva. Per cui il complesso rapporto tra fisico e psiche di una persona e il suo sesso è lasciato alla pura arbitrarietà del singolo e alla relativizzazione del momento.

Non solo. Questa “identificazione percepita” trascina con sé una ossessiva categorizzazione delle identità e delle tutele. Non si esalta – come vuole trasversalmente una grande massa di cittadini – la libera scelta del proprio modo di vivere la sessualità, ma si applica un codice a barre ad ognuno. Gay, lesbica, trans, queer, transgender, cisgender. E le “categorie” crescono in continuazione, elencando chi non è interessato al sesso o chi passa da una identità all’altra.

In un lucido articolo sulla rivista MicroMega Cinzia Sciuto ha giustamente esclamato “Cisgender sarà lei!”, spiegando che un conto è dire che il genere è anche una costruzione socio-culturale, altra cosa è dire che sia un fatto del tutto non rilevante. Di più. Se è stereotipato il concetto tradizionale che gli uomini o le donne a causa del loro sesso si comporterebbero in un certo modo, ancor più stereotipata rischia di essere la categorizzazione delle “percezioni” di genere. E’ questo il motivo per cui una parte del femminismo boccia alcuni passaggi del ddl Zan. Ed è per questo che, senza inoltrarsi in un ginepraio di argomentazioni sociali, psicologiche, culturali, filosofiche, sarebbe meglio che la legge sull’omofobia e la transfobia colpisse semplicemente ogni attacco al “libero orientamento sessuale”.

C’è una seconda osservazione da fare, secondo me. Tutta politica. Negli anni delle grandi battaglie per i diritti civili il Vaticano e l’episcopato stavano da una parte, il sentire laico della società italiana stava dall’altra. Oggi la situazione è completamente diversa. Francesco è il primo pontefice che in maniera netta si è schierato dalla parte del pieno rispetto dell’orientamento sessuale del singolo. “Chi sono io per giudicare un omosessuale…?”, ha esclamato sin dall’inizio. Francesco ha ricevuto pubblicamente coppie omosessuali. Ha ricevuto in Vaticano un trans spagnolo con la sua fidanzata e il suo vescovo per sottolineare la sua dignità. Ha dichiarato esplicitamente che i gay hanno diritto a vivere in una famiglia.

La Cei a sua volta, con il cardinale Bassetti, ha dichiarato di condividere l’esigenza di tutelare dalla violenza e dalle aggressioni le persone gay e trans. Bassetti ha chiesto unicamente una rimodulazione del testo nei punti più controversi.

Come non avvertire che si è trattato – rispetto alle contrapposizioni frontali degli anni Settanta – di un passo in avanti storico? E’ noto che per questo suo atteggiamento il presidente della Cei è stato accusato dietro le quinte dai falchi conservatori di essere “troppo molle”.

Una fredda analisi politica porta ad un solo risultato. Insistere da parte dei promotori della legge nell’intransigenza su formulazioni controverse e del tutto inutili ai fini del contrasto all’omofobia e la transfobia avrà un solo sbocco: spingere parti del mondo cattolico nelle braccia di Salvini e della Meloni. Non credo sia quello di cui ha bisogno l’Italia.

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