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Pentagon Papers: 50 anni dopo, la libertà di stampa tra valori e limiti alla prova dei social

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“Soltanto una stampa libera e senza lacciuoli può svelare efficacemente l’inganno del governo”: è un estratto del parere espresso il 30 giugno 1971 dal giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti Hugo Black, a corredo del voto con cui la Corte respingeva – con sei voti a tre – la richiesta dell’Amministrazione federale di impedire la pubblicazione dei Pentagon Papers. E non c’è giornalista che, leggendo quelle parole, non avverta il brivido – e l’orgoglio – della responsabilità corrergli lungo la schiena.

Ciascun giudice scrisse un proprio parere, su una materia divisiva, che è stata raccontata, nell’ottica del Washington Post, da The Post: il film è un inno alla libertà di stampa e al valore dell’informazione a sostegno della democrazia, nella dialettica tra l’editore Katharine Graham (Meryl Streep) e il direttore Ben Bradlee (Tom Hanks) – il regista è Steven Spielberg. Perché parlarne oggi?

Cinquant’anni or sono, il 13 giugno 1971, il New York Times, che ebbe una lunghezza di vantaggio sul Washington Post, iniziava a pubblicare i Pentagon Papers: 7000 pagine di documenti top secret del Dipartimento della Difesa degli Usa sui rapporti col Vietnam dal 1945 al ‘67, crimini di guerra e violazioni dei diritti umani, depistamenti e censure, orrori fino ad allora ignoti all’opinione pubblica americana e mondiale. Ne nacque una sfida tra New York Times e Washington Post a chi facesse prima e meglio, mentre l’Amministrazione federale –presidente Richard Nixon – provava a bloccare la pubblicazione. Fino a che la Corte Suprema non deliberò a favore della libertà di stampa, nel giro di poco più di due settimane.

L’anniversario della pubblicazione dei Pentagon Papers cade mentre negli Stati Uniti, e ovunque altrove, è vivace il dibattito sulla libertà di espressione sui social networks, che, non essendo media, non sono editorialmente responsabili dei contenuti che veicolano ma che, nella campagna elettorale Usa 2020, sono intervenuti segnalando post menzogneri o che incitavano all’odio e/o alla violenza.

Vietato vietare?, ci s’interroga, specie ai leader politici – il riferimento è a Donald Trump, privato dei suoi account Facebook e Twitter, tra gli altri, dopo averli usati per anni per diffondere affermazioni non circostanziate o palesemente menzognere. Oppure c’è un confine tra la libertà d’espressione e la liceità di dire il falso, quando non si esprime un’opinione, ma si afferma un fatto?

I divieti innescano altri divieti: se Facebook e Twitter ‘bannano’ Trump, si trova un ‘trumpiano’ – vedi il governatore della Florida Ron DeSantis – che vieta loro di vietare. La spirale della polemica s’avvita: se DeSantis, da destra, invoca il rispetto della libertà d’espressione, i suoi critici evocano, da sinistra, la violazione della libertà d’impresa. Politici e polemisti, in prima fila negazionisti e cospirazionisti, mettono sotto accusa i social che celerebbero, dietro il paravento del ‘politically correct’, le inclinazioni ‘liberal’.

Nel 1971, lo scontro ‘ stampa-potere’, vinto dalla stampa con il verdetto della Corte Suprema, pose le premesse per quella che sarebbe stato pochi anni dopo, nel 1974, la vicenda del Watergate, l’inchiesta di due giovani cronisti, Carlo Bernstein e Bon Woodward, che condusse alle dimissioni il presidente Nixon – ancora il Washington Post protagonista, ancora Bradlee direttore.

Non è tutto e sempre così, il giornalismo americano. Ci sono stati momenti meno brillanti: subito dopo l’11 settembre, ad esempio, l’orgia di risentimento, paura, patriottismo rese ciechi media e giornalismi di fronte alle violazioni dei diritti umani nella guerra al terrorismo – torture, renditions, Guantanamo – e alla ‘invenzione’, col concorso dell’intelligence, delle armi di distruzione di massa in Iraq per giustificare l’invasione di un Paese e il rovesciamento di un regime.

Poi la stampa ha fatto autocritica ed è tornata a essere cane da guardia del potere: irrilevante, forse, come l’elezione di Trump nel 2016 ha mostrato – tutte le grandi reti tv e i quotidiani più autorevoli gli erano contro – ma decisa a stanare le magagne dei potenti nel segno della lealtà alla notizia, l’unica ‘stella polare’ del nostro mestiere. Perché, oggi come 50 anni fa, “soltanto una stampa libera e senza lacciuoli può svelare efficacemente l’inganno del governo”.

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