Da oltre dieci anni, ormai, Bimal ha raggiunto l’Italia per lavoro. Vive alle porte della stazione Termini, a Roma, crocevia di lingue e dialetti, lì dove abitano e lavorano tanti suoi connazionali bengalesi, tra le comunità più numerose della Capitale, insieme a quella cinese e nordafricana.
In tempi di pandemia e distanziamento sociale, Bimal è costretto a vivere in un’unica stanza, accanto al padre e al cugino, perché di più non può permettersi. In un’altra camera, a fianco, dormono altri quattro familiari. Sette in tutto, in pochi metri quadri. Eppure, spiega, ha un contratto regolare, anche se precario. E uno stipendio, seppur basso. Si crede quasi fortunato, anche perché il Covid lo ha risparmiato. Non è stato così per tanti suoi amici che si sono ammalati, spesso anche con effetti gravi: “Vedi, in quella casa laggiù c’erano undici persone, in due stanze. Una di loro ha avuto un contatto con un positivo al virus: è accaduto un disastro, si sono contagiati tutti”, racconta al Fattoquotidiano.it, indicando uno dei palazzoni che sorgono di fronte al principale hub capitolino dei trasporti, mentre si fa visitare dai medici dell’Unità mobile di Intersos. Una delle diverse associazioni che hanno cercato di offrire, nel corso di più di un anno di pandemia, cure e servizi agli invisibili del Covid: migranti, regolari e non, richiedenti asilo e rifugiati, apolidi, senza fissa dimora, comunità di rom, Sinti e caminanti. E poi, ancora, chi vive nelle occupazioni abitative, chi lavora nei campi ed è vittima del caporalato, sfruttato per pochi euro l’ora, dall’Agro Pontino nel Lazio, alla piana del Sele nel Salernitano, al foggiano. O chi si trova negli insediamenti informali, sparsi per tutta la penisola, o tra i ghetti, come quello di Borgo Mezzanone.
Categorie sociali già vulnerabili, poi travolte dal coronavirus, che ha cancellato – confermano i sindacati – molti dei progressi raggiunti negli anni precedenti sui tassi di occupazione della popolazione migrante, non solo in Italia. “La gestione della pandemia è stata sbagliata fin dall’inizio nei confronti dei più deboli: si è dato per scontato il dispositivo di protezione individuale più importante: il tetto“, spiega Alessandro Verona, referente medico per la regione Europa di Intersos. E gli stessi racconti di Bimal lo confermano: “Se qualcuno si ammala, fare isolamento in casa per noi è quasi impossibile. E rischio di perdere il lavoro. Come faccio?”, ammette. E non è un caso che, rivela, tra gli undici connazionali che si erano contagiati, c’è chi ha continuato a lavorare, almeno in attesa dei risultati del tampone: “Come fanno altrimenti a guadagnarsi da vivere?”, li giustifica Bimal.
Non hanno un medico, in quanto senza residenza o domicilio. Né dispongono di un permesso di soggiorno o di una tessera sanitaria. Così restano le associazioni a prendersi cura di loro. Dall’Asgi (Associazione Studi Giuridici Immigrazione), alla Caritas Italiana, passando per Centro Astalli ed Emergency, alla stessa Intersos, Médecins du Monde, Medici contro la Tortura, Medici per i Diritti Umani (MEDU), Medici Senza Frontiere (MSF), Sanità di Frontiera.e Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (SIMM), c’è chi si è fatto carico e garantito alla popolazione migrante quella prima assistenza sanitaria, spesso negata per burocrazia e ostacoli all’accesso. Associazioni che ora, riunite nel Tavolo immigrazione salute, hanno da mesi lanciato un appello alle istituzioni, “affinché non venga lasciato indietro nessuno”. Altrimenti, il rischio è che mezzo milione di persone sia tagliato fuori dalla campagna vaccinale in corso, al di là di quanto previsto dalle norme, dalla stessa Costituzione italiana al suo articolo 32 e dal Testo unico sull’immigrazione, che garantiscono l’universalità di cure e profilassi.
Perché se il diritto al vaccino, come chiarito e ricordato anche dall’Aifa, non è legato allo status giuridico, così come prescinde dal possesso o meno di un documento (anche scaduto), in realtà, nella pratica quotidiana, ostacoli e barriere burocratiche impediscono l’accesso ai vaccini a circa 500mila persone. Non è un caso che già da mesi le associazioni avessero avvertito il governo, chiedendo che fossero date “indicazioni chiare” per tutto il Paese, al di là dell’autonomia regionale in materia sanitaria: “L’impostazione esclusiva di iscrizione tramite piattaforma nazionale o regionale per la prenotazione del vaccino presso il proprio medico di medicina generale o in altro luogo, potrebbe essere un ostacolo”.
In fondo, era già accaduto nel primo anno di pandemia con i tamponi, con l’obbligo della ricetta dematerializzata e della prenotazione on line che si era tradotto nell’impossibilità per troppi invisibili di poterne fare richiesta. E così si è rivelato nella pratica quotidiana, anche sui vaccini: “C’è un problema legato alle piattaforme, al percorso informatico scelto da diverse Regioni per le prenotazioni, che esclude molte persone che hanno dei codici speciali, come quello Stp per gli stranieri extra comunitari temporaneamente presenti. O l’Eni, che è un codice per i cittadini europei non iscritti. Bisognerebbe trovare delle alternative, su questo le Regioni possono di certo fare di più”, chiarisce Gianfranco Costanzo, direttore sanitario dell’Inmp, l’Istituto nazionale Salute, migrazioni e povertà, ente collegato direttamente al ministero della Salute. Codici che non vengono riconosciuti dalle piattaforme, impedendo di fatto l’esercizio di un diritto, anche per chi, per età o per patologia, avrebbe già i requisiti per potersi vaccinare. “Non chiediamo che queste persone saltino la fila, ma che possano essere inserite all’interno della programmazione. Anche perché il tema è di salute pubblica: bisogna vaccinare tutti affinché la campagna abbia risultati efficaci“, aggiunge Valeria Vivarelli, responsabile dei progetti di Sanità di Frontiera. Una onlus che, come tante altre, già “ha accompagnato diverse persone che, pur avendo i requisiti, non riuscivano a registrarsi” per la vaccinazione.
Quel che è certo che migranti e senza fissa dimora siano stati già colpiti in modo duro dalla pandemia. Altro che livella. Gli stessi report dell’Istituto nazionale di Sanità hanno confermato come l’impatto non sia stato lo stesso per tutti. Perché maggiore è la povertà, minore è stata la possibilità di cura e di accesso ai servizi sanitari. Con “casi diagnosticati anche un mese più tardi” che hanno avuto come conseguenza una “maggiore probabilità di presentare condizioni cliniche che richiedono ricovero, sia ordinario che in terapia intensiva”, nonché una “maggiore probabilità di morte”. Per questo la richiesta è che la “fragilità sociale venga aggiunta a quella clinica ed anagrafica” come elemento per poter accedere alla campagna di vaccinazione. E che, al di là di quanto previsto dalle norme, “venga stabilita una metodologia: bisogna sapere dove e quando”.
Ma se dal ministero non arrivano ancora indicazioni chiare, qualcosa, almeno nella regione Lazio, sembra invece muoversi. Lo anticipano le stesse associazioni che partecipano ai tavoli con le Asl: “In tempi brevi dovrebbe essere emanata una nota regionale che permetterà a chi vive negli insediamenti informali, nelle occupazioni e ai senza dimora di potersi vaccinare”, al di là dei problemi riscontrati nelle piattaforme. Un primo passo importante, con la speranza possa fare da apripista e che il modello venga emulato su tutto il territorio nazionale. Anche perché l’interesse della popolazione migrante c’è già: “Mi piacerebbe fare il vaccino, ma senza documenti come faccio?”, ci spiega un badante colombiano che da un anno aspetta di venire convocato dalla Prefettura. Uno dei 207mila della sanatoria fantasma per braccianti, colf e lavoratori dei servizi domestici, di fatto ‘sospesa’ in un limbo per la lentezza della macchina amministrativa, dato il bassissimo numero delle domande esaminate o convertite in permessi di soggiorno. “Ho 63 anni, se potessi, quando sarà il mio turno, lo farei“, aggiunge un altro cittadino egiziano. Non sono i soli. Certo, c’è anche da fare un percorso di formazione e informazione sul vaccino, perché, come spiega anche Intersos, “non manca la confusione a causa di tante notizie che alimentano il disorientamento o fake news. Fondamentale che i sanitari chiariscano”. ” Ci siamo accorti di come sia importante l’elemento comunitario, soprattutto nelle occupazioni. Per questo abbiamo collaborato nella formazione di ‘operatori di salute‘, persone che fanno da punto di riferimento e da collante all’interno degli insediamenti anche con le Asl”, sottolinea Alessandro Verona.
C’è poi l’esigenza di mappare le richieste: “Ci stiamo occupando già da mesi di creare delle liste, segnalando chi può già fare domanda”, avvertono dalle associazioni.
“La divisione in 21 sistemi sanitari diversi, 19 regionali e due province autonome, non aiuta. L’unica regione che ha cercato di portare avanti interventi strutturali è stata per ora la Puglia, che, seppur tra limiti, ha coinvolto diversi attori del territorio per sviluppare un intervento di medicina di prossimità nei luoghi dove il bisogno è maggiore”. E la stessa Asl Roma 2 ha avviato progetti sperimentali, insieme al terzo settore, per offrire servizi e intercettare le richieste direttamente negli insediamenti informali. Interventi però ancora spesso isolati.
Riguardo la tipologia di vaccino che potrà invece essere utilizzato, anticipano le associazioni, “si sta pensando a quello monodose della Johnson & Johnson“, in modo da evitare eventuali problemi relativi ai richiami. Certo, il percorso è ancora da definire. Così come si sta lavorando per ‘aggirare’ altri ostacoli, come quelli dell’articolo 5 del decreto Renzi-Lupi, che vieta la residenza a chi vive all’interno delle occupazioni, con conseguenze dirette sul diritto alla salute, dato che l’iscrizione anagrafica è una condizione necessaria per vedersi assegnato un medico di famiglia o un pediatra. “Al di là di quanto imposto dalla legge, si sta lavorando per cercare di garantire per queste persone la domiciliazione sanitaria per motivi di lavoro, salute o legati al percorso scolastico, negli insediamenti informali dove vivono, seppur in modo temporaneo da tre mesi a un anno. Sarebbe già una grande vittoria”, conclude Andrea Carrozzini, medico di Intersos. Primi passi, ma comunque segnali importanti per chi, altrimenti, rischia di restare invisibile.
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