di Marcello Volpi

È costume in Italia regalare delle mimose alle donne che più abbiamo e sentiamo vicine. Sono stato liceale anch’io e, ogni 8 marzo, portavo un mazzo di mimose in classe: era un gesto di educazione, perché la ricorrenza, moralmente, me lo imponeva. Era carino far piacere alle mie compagne di classe, ma chi lo sa se a tutte loro quel gesto risultasse come una profonda dimostrazione di rispetto. Oggi ci ripenso e mi rendo conto che non ero totalmente consapevole della lunga storia che ci ha condotto oggi a celebrare la “Giornata internazionale della donna”. Certo, ne coglievo il significato sociale, ma solo in parte vi leggevo la storia delle lotte femministe, che per più di un secolo hanno rivendicato quei diritti fondamentali che appartengono alla persona.

L’8 marzo, infatti, non nasce dalla generosa concessione di qualche politico illuminato, bensì racconta di una battaglia durata una vita, che ancora oggi impone a tutti quanti noi un sincero impegno sociale. Già nei primi anni del Novecento si svolsero conferenze internazionali “delle donne socialiste” o “woman’s day” per discutere, tra le altre cose, dello sfruttamento che dovevano subire le lavoratrici nelle fabbriche, sia in termini di salario, sia in termini di ore lavorative. La discriminazione era diffusa e le rivendicazioni per maggiori diritti montavano. Siamo nei primi anni ’20 e di nuovo ritroviamo conferenze internazionali “delle donne comuniste”; in particolare, nel 1921 a ridosso del III Congresso dell’Internazionale Comunista, veniva istituita la “Giornata Internazionale dell’operaia”, con ricorrenza proprio l’8 marzo. Solo nel 1977 l’Onu sanciva, con una risoluzione dell’Assemblea Generale, una “Giornata Internazionale per i diritti delle donne”, ma nel frattempo molte altre lotte femministe si erano susseguite e in molti momenti si fece la storia.

Era il 26 dicembre 1965 quando Franca Viola fu rapita e tenuta ostaggio per otto interminabili giorni. Violentata e spogliata della sua dignità di essere umano, riuscirono a salvarla i familiari e il corpo di polizia, ma la sua battaglia non fu vinta finché la giustizia non assicurò al carcere Filippo Melodia, colui che barbaramente la violentò. Ci volle una gran forza d’animo per non rassegnarsi all’usanza del tempo: il matrimonio riparatore, ovvero stupratore e stuprata uniti nel sacro vincolo per evitare il carcere al criminale e salvare così la “moralità pubblica”. Si fatica a crederlo, ma questo prevedeva l’articolo 544 del codice penale italiano fino al 1981, con una colpevole legge italiana che addirittura fino al 1996 non considerava il reato di stupro come un reato contro la persona, bensì come un delitto contro il “buon costume”.

Da queste pagine di storia, fatte di violenza, di crimine, di omertà e quindi di resistenza, di lotta, di verità, sono stati conquistati tanti diritti di cui la civiltà occidentale spesso e volentieri si fa portavoce. Eppure ancora oggi, come spesso accade, la damnatio memoriae affligge le nostre deboli menti, conferendo un indefinito valore a quella che comunemente definiamo “Festa della donna”. Se guardassimo con più attenzione alle costanti discriminazioni persistenti nel mondo del lavoro nei confronti delle donne e al sempre crescente dato dei femminicidi, ci accorgeremmo di quanto ancora vi sia da fare in termini di diritti, ossia quanto ancora vi sia da conquistare e quanto da salvaguardare.

Per pensare al futuro e progredire per davvero non bastano ovviamente queste parole, ma conoscere la storia dell’8 marzo può aiutarci in questa battaglia di civiltà. E per essere concreti, cosa vogliamo farne, per esempio, del ddl Zan già passato alla Camera lo scorso 4 novembre e ora fermo al Senato, che intende tutelare anche le donne? Senza voler politicizzare una ricorrenza ormai da tempo depoliticizzata, dico: festeggiate, festeggiamo la donna, regaliamole pure un bel mazzo di mimose gialle, ma facciamolo con consapevolezza. E magari nel bigliettino scriviamoci un po’ di questa storia.

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