“Durante tre interi giorni del maggio 2013 si realizzò, di fatto, una limitazione o compressione della nostra sovranità nazionale“. Lo scrivono i giudici del tribunale di Perugia nelle motivazioni della sentenza di primo grado sul caso Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov espulsa dall’Italia insieme alla figlia nel 2013 e rientrata nel nostro Paese alla fine dello stesso anno dopo mesi di feroci polemiche. Per la vicenda sono stati condannati tutti gli imputati, tra cui l’allora capo della squadra mobile di Roma Renato Cortese e il responsabile dell’ufficio immigrazione a Roma Maurizio Improta. La corte li ha riconosciuti colpevoli di sequestro di persona e li ha condannati a 5 anni di reclusione, oltre all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. I giudici definiscono il trattenimento e la successiva espulsione di Alma Shalabayeva e della figlia Aula un “crimine di lesa umanità realizzato mediante deportazione“. Ma si spingono anche oltre, parlando di “rapimento di Stato” messo a segno da alcuni imputati, che di fatto “servirono gli interessi di altra nazione, cioè della dittatura kazaka“. Una delle “domande chiave” dell’intera vicenda resta però ancora irrisolta: “A quale livello politico o istituzionale venne presa la decisione della deportazione?”, si chiede il tribunale.

Alma e Aula Shalabayeva furono prelevate dalla polizia dopo un’irruzione nella loro abitazione di Casalpalocco il 29 maggio 2013. Le forze dell’ordine in realtà cercavano il marito, ma dopo un velocissimo iter giuridico-amministrativo la donna e la figlia furono caricate su un aereo privato messo a disposizione dalle stesse autorità di Astana con l’accusa di possesso di passaporto falso. A luglio 2013, in seguito alle polemiche per l’operazione, si dimise il capo di gabinetto del ministero dell’Interno Giuseppe Procaccini (“Per senso delle istituzioni”). Secondo le ricostruzioni, aveva infatti incontrato l’ambasciatore kazako Andrin Yelemessov per parlare dell’oppositore Ablyazov. L’allora capo del Viminale Angelino Alfano, invece, fu oggetto di una mozione di sfiducia, poi respinta dal Parlamento. Shalabayeva e la figlia lasciarono il Kazakistan il 24 dicembre dello stesso anno per fare ritorno in Italia.

Nelle motivazioni della sentenza – con cui sono stati condannati anche i funzionari della mobile Francesco Stampacchia e Luca Armeni, gli agenti in servizio all’Ufficio immigrazione Stefano Leoni e Vincenzo Tramma e il giudice di pace Stefania Lavore – si legge che “tra il 28 maggio e le prime ore del 29 maggio, si creava una surreale situazione nella quale i più alti livelli della più importante forza di polizia del nostro paese restavano con il ‘fiato sospeso’ in attesa che la Squadra Mobile e la Digos romane realizzassero la cattura di una persona che assumeva le sembianze di un Bin Laden kazako, cioè di un pericoloso terrorista internazionale, quasi certamente armato, che metteva in ‘pericolo la sicurezza del nostro paese'”. Un’espressione che i giudici attribuiscono all’allora capo del Viminale Alfano “nel colloquio con il suo Capo di Gabinetto, sollecitandolo ad incontrare i rappresentanti del Kazakistan”. Il punto è che “le autorità kazake mentivano spudoratamente nel tentativo di presentare Ablyazov come soggetto legato ad ambienti terroristici e, soprattutto, come persona pericolosa“. Non c’era alcuna evidenza, infatti, che “disponesse di una scorta armata”.

I giudici del terzo collegio del tribunale di Perugia presieduto da Giuseppe Narducci toccano quindi uno dei nodi più delicati dell’intera vicenda: “La circostanza che ha sconcertato maggiormente il Collegio è che nessun dirigente o funzionario della Polizia di Stato, in nessuna fase di questa vicenda, abbia avvertito la necessità di soffermarsi, e soprattutto di far soffermare l’intera struttura, per ragionare sul fatto che la possibile estradizione di Ablyazov (se fosse stato catturato a Roma) e, soprattutto, la successiva espulsione della moglie e della figlia sarebbero avvenute in favore di un paese, il Kazakhistan, messo all’indice, nella comunità internazionale, proprio perché nazione che violava i diritti umani, anche praticando la tortura e la eliminazione fisica degli oppositori”. Tutti fattori di cui la polizia si sarebbe completamente disinteressata.

Per il tribunale, quindi, “il trattenimento forzoso di Alma Shalabayeva presso il Cie di Ponte Galeria a Roma, dal 29 al 31 maggio 2013, e la successiva espulsione della donna e della figlia Aula” verso il Kazakistan rappresentano “un caso eclatante non solo di palese illegalità – arbitrarietà delle procedure seguite dalle istituzioni italiane, ma, soprattutto, una ipotesi di patente violazione dei diritti fondamentali della persona umana”. Parole pesanti, tanto che i giudici arrivano a definire “quasi non adeguata” la norma del “delitto di sequestro di persona” contestata agli imputati. Perché? Sarebbe inadatta a “rappresentare, compiutamente, le dimensioni della condotta delittuosa e le devastanti conseguenze che essa ha cagionato”.

Uno degli agenti coinvolti nel processo è Cortese, prima ex capo della Mobile di Roma e poi questore di Palermo. Un nome legato da anni alla Sicilia: c’era lui a capo della sezione catturandi l’11 aprile 2006, quando fu catturato il superboss Bernando Provenzano. Con i suoi uomini, ha scovato anche ricercati del calibro di Gaspare Spatuzza, Enzo e Giovanni Brusca, Pietro Aglieri, Benedetto Spera e Salvatore Grigoli. Improta, invece, negli anni successivi è diventato capo della Polfer. Entrambi, come ha fatto sapere il capo della Polizia Franco Gabrielli, dopo la condanna in primo grado sono stati destinati ad altro incarico. “Abbiamo un’altra valutazione” della vicenda, ha dichiarato Gabrielli parlando alla festa del Cinema di Roma nell’ottobre scorso. “Siamo in uno stato di diritto, ci sarà un appello e ci auguriamo che la verità processuale corrisponda alla nostra verità. Paura che paghino i poliziotti? Sì, non lo nego”. Gabrielli ha poi ribadito la necessità di rispettare la sentenza, anche se “questo mi costa umanamente moltissimo perché conosco i colleghi”.

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