di Roberto Iannuzzi*

In tutto il mondo occidentale siamo ancora lontani dal liberarci dalle restrizioni adottate per contrastare l’epidemia da Covid-19. Sebbene l’attenzione generale sia ancora focalizzata sulla dimensione sanitaria di questa crisi, è urgente evidenziare in tutta la loro drammaticità le conseguenze economiche e sociali che i provvedimenti finalizzati a contenere la diffusione del virus hanno comportato.

Nelle “economie avanzate” dell’Occidente, già piagate da livelli sempre più intollerabili di disuguaglianza, i ripetuti lockdown e le altre misure restrittive imposte dai governi hanno favorito un’ulteriore concentrazione del capitale, scavando un solco fra “vincitori e vinti” della pandemia. Gli Stati Uniti, ancora una volta, rappresentano l’avanguardia di una tendenza che però ha investito in pieno anche l’Europa.

Nei soli mesi di marzo e aprile dello scorso anno, 30 milioni di americani hanno presentato domanda per il sussidio di disoccupazione. Dalla scorsa estate, 9 milioni sono scesi sotto la soglia di povertà, 40 milioni di persone sono a rischio di sfratto. Mentre ristoranti, negozi e piccole imprese, dichiarati non essenziali, chiudevano per rispettare il lockdown, grandi gruppi come Amazon, Walmart, Instacart, McDonald’s hanno acquisito le loro quote di mercato. Nella loro azione di rastrellamento, le grandi corporation sono state addirittura aiutate dal governo tramite provvedimenti di stimolo all’economia che sono andati in gran parte a loro vantaggio.

I giganti della Big Tech, come Alphabet, Microsoft, Amazon, Apple e Facebook, hanno tratto enorme profitto dal trasferimento online di molte attività lavorative, dell’istruzione, dello shopping e di altri servizi. Queste cinque compagnie valgono ormai il 20% del mercato azionario americano.

Un’altra categoria emersa trionfante dalla “crisi pandemica”, su entrambe le sponde dell’Atlantico, è quella delle grandi compagnie farmaceutiche, che hanno beneficiato di ingenti finanziamenti pubblici, in particolare per la ricerca finalizzata alla produzione dei vaccini, procedendo poi alla privatizzazione dei profitti grazie a brevetti e diritti di proprietà intellettuale.

Nel frattempo, secondo un recente sondaggio, il 48% delle piccole imprese negli Stati Uniti corre il rischio di chiudere per sempre. In Europa le cose non vanno diversamente. Secondo un’indagine dello scorso agosto, più di metà delle Pmi europee, che danno lavoro a due terzi della manodopera del continente, temono per la propria sopravvivenza nel 2021. Lo stesso Mario Draghi, ex presidente della Bce, ha lanciato l’allarme sul rischio corso in generale dalle imprese se non verranno aiutate. Ma ciò solleva un nuovo inquietante interrogativo, che lascia presagire un rimodellamento della struttura delle economie occidentali. Saranno infatti governi e banche centrali a decidere chi meriterà di sopravvivere e chi no, ma in base a quali criteri?

Ulteriori faglie sono state create nel mercato del lavoro. La promozione dello “smart working” ha determinato l’emergere di due classi, la prima composta dai colletti bianchi che possono lavorare da casa, la seconda dai lavoratori manuali impiegati nell’industria, nella logistica, nel turismo, nella ristorazione, e in altri settori che richiedono una presenza fisica. Quest’ultima classe, spesso rappresentata da donne e giovani, e dai lavoratori della cosiddetta “gig economy”, è quella più esposta alle misure restrittive dei lockdown (se impiegata in settori considerati non essenziali) o al contagio del coronavirus (se invece impiegata in settori chiave per l’economia).

Anche per coloro che operano in smart working vi sono tuttavia svantaggi, che vanno dall’isolamento e atomizzazione del personale all’aumento delle forme di controllo da parte dei datori di lavoro tramite l’introduzione di software appositi, in accordo con una tendenza più generale della “crisi pandemica” che ha visto l’intensificarsi di forme di sorveglianza di massa (tracciamento, riconoscimento facciale, videosorveglianza).

Infine, l’esperienza della didattica a distanza si è tradotta, nella gran parte dei paesi che l’hanno adottata, in un declino dei livelli e della qualità dell’istruzione per milioni di studenti, accompagnato spesso da solitudine e alienazione.

Malgrado questi aspetti negativi, vi è una forte spinta perché “innovazioni” come l’online learning, lo smart working e la telemedicina, diventino elementi caratterizzanti delle società “post-Covid”, perché gli interessi dei giganti della Big Tech e delle imprese dell’industria 4.0 vanno in questa direzione. Sullo sfondo vi è anche un interesse geopolitico. Digitalizzazione, robotizzazione, intelligenza artificiale, tecnologia 5G, biotecnologie (inclusi i nuovissimi vaccini a mRNA), sono infatti elementi della cosiddetta quarta rivoluzione industriale, il cui decollo è ritenuto essenziale dalle élite economiche occidentali per competere con la potenza cinese.

In questa sconvolgente trasformazione, tuttavia, quello che sembra mancare drammaticamente è il controllo democratico. La “crisi pandemica” sta diventando l’occasione per un cambiamento tecnologico radicale caratterizzato da una nuova straordinaria concentrazione del capitale economico, e conseguentemente del potere politico, lontano dagli occhi dei comuni cittadini. Questi ultimi sono costretti a focalizzare la propria attenzione sull’emergenza della disoccupazione, dell’impoverimento, e dello sfilacciamento del tessuto sociale in conseguenza delle misure adottate per “contenere il virus”.

* Autore del libro “Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo” (2017).
@riannuzziGPC

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